L’idea che l’Italia possa rinunciare a queste risorse, o anche soltanto ad una piccola parte di esse, si è riflessa istantaneamente in un aumento dello spread
N egli ultimi due anni il nostro debito pubblico è sceso, in rapporto al Prodotto interno lordo (Pil), di 10 punti: un risultato strabiliante in un biennio in cui i conti pubblici hanno chiuso con un rosso del 6,4 per cento del Pil. Non accadeva da quarant’anni a questa parte.
La spiegazione di un risultato così sorprendente è in realtà semplice. Per far scendere il rapporto tra l’indebitamento dello Stato e la ricchezza prodotta dai cittadini e dalle imprese, cioè il Pil, serve che l’economia cresca. Il ritorno dell’inflazione nella seconda parte dello scorso anno ha un po’ aiutato. Ma non è stata (o comunque non soprattutto) la corsa dei prezzi che ha abbattuto del 10 per cento il rapporto tra debito e Pil.
È questo il motivo per cui gli investitori internazionali, che possiedono poco meno di un terzo del nostro debito, seguono con apprensione il dibattito politico sul Piano di rilancio e resilienza. Forse non è un caso il fatto che lunedì sera, dopo l’invito del capogruppo della Lega alla Camera, Riccardo Molinari, a valutare se rinunciare a parte dei fondi del Pnrr, il premio al rischio sul nostro debito, cioè lo spread dei Btp rispetto ai titoli di Stato tedeschi, ha fatto un saltino in su: 5 punti, pari a circa il 3 per cento in più in poche ore. E questo nonostante le rassicurazioni arrivate dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni.
Complessivamente, il Pnrr vale più del 10 per cento del Pil. Spendere quelle risorse in quattro anni, come ci siamo impegnati a fare, significa realizzare un punto e mezzo di crescita in più quest’anno e il prossimo, e tra i 2 e i 3 punti in più nel 2025-26, secondo le stime del ministero dell’Economia costruite usando il modello econometrico Quest III disegnato per l’Italia dalla Commissione europea.
A questo va aggiunta la spinta proveniente dalle riforme, che sono parte integrante del Pnrr: dal nuovo codice degli appalti, alla giustizia, alla concorrenza. Sempre il modello della Commissione, simulato dagli economisti del Mef, stima un effetto addizionale sul Pil, dovuto a queste riforme, pari a 3,5 punti nel 2026.
Non sorprenderà allora se l’idea che l’Italia possa rinunciare a queste risorse, o anche solo ad una piccola parte, si sia riflesso istantaneamente in un aumento dello spread. Anche perché più crescita non si trasforma solo in più occupazione, ma anche in più entrate fiscali e quindi più risorse a disposizione per investimenti e riforme.<
Il piano concordato con la Commissione può essere modificato. Ma la vera domanda da porsi è se ci conviene. Dovremmo fermarci il tempo necessario per riscrivere qualche progetto o scriverne di nuovi. Vorrebbe dire ritardare investimenti previsti e a cascata incidere sulla crescita e sulle riforme. La reazione negativa dei mercati finanziari avrebbe inoltre l’effetto di aumentare i tassi di interesse.
I progetti che si vorrebbe cancellare sono stati scritti un anno fa in collaborazione con il Parlamento e la Commissione europea: non saranno tutti perfetti, ma non penso siano pessimi. Anche l’osservazione che in un anno tutto è cambiato non tiene: il prezzo del gas, dopo essere esploso durante la scorsa estate, è tornato vicino ai livelli di un anno fa. Sarebbe molto meglio concentrarsi sull’attuazione del piano. Semmai sugli ostacoli e sul come eliminarli.
Un esempio per tutti. I Comuni non riescono a far partire gli appalti per costruire 210 nuove scuole? Superato un certo periodo di tempo li si obblighi ad affidarsi a società pubbliche come Invitalia che ha sviluppato una grande esperienza. L’idea che ogni volta si debba ricominciare da capo, come se il nostro Paese tra difficoltà e lentezze in questi anni non abbia continuato a camminare, è quello che ha determinato, ad ogni cambio di governo, ulteriori ritardi e lentezze. Che nel caso di una priorità, se non la priorità principale, la crescita, sarebbe l’errore che non possiamo permetterci.