19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Francesca Basso e Federico Fubini

Le accuse internazionali, le risposte della Commissione, i contrattempi e le soluzioni, la pista russa: la vera storia della corsa a ostacoli verso il traguardo di una copertura efficace per 440 milioni di cittadini. Salvando la salute e la reputazione

Venerdì scorso il rappresentante dell’Unione europea si è trovato sul banco degli imputati in uno dei centri che cercano di governare la globalizzazione. Era la riunione dei delegati dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). In agenda c’era la campagna di vaccinazione grazie alla quale il mondo intero dovrebbe uscire dalla pandemia, che ha già fatto ufficialmente quasi due milioni e mezzo di morti e provocato la più violenta recessione globale dal 1945. Dal Sudafrica all’India, dalla Gran Bretagna all’Egitto, decine di governi sembravano avere qualcosa da dire contro la Ue. Il delegato sudafricano, Mustaqeem Da Gama, ha persino accusato gli europei di favorire politiche che «danno la priorità al profitto rispetto alla vita» e «limitano le possibilità di fornitura (dei vaccini, ndr) a livello globale».

L’accusa dell’India
Tutto questo suona lontano dall’immagine che l’Europa ha di sé: una superpotenza diversa, aperta, generosa, fondata sul rispetto dei diritti. E suona anche amaramente ironico. Perché l’Europa non è la vincente della campagna globale di vaccinazione, al contrario: è in difficoltà in confronto a Paesi con livelli di reddito paragonabili. Nel giorno di quella tesa riunione al Wto, secondo Our World in Data, aveva ricevuto almeno una dose di vaccino appena il 4% della popolazione in Italia, meno del 4% in Germania e Belgio e meno del 3% in Francia. In confronto, Israele era già al 62%, la Gran Bretagna al 17% e gli Stati Uniti all’11%. Persino negli Emirati Arabi Uniti si era già quasi a metà della popolazione autoctona.
In Italia, secondo alcune persone direttamente coinvolte, tutto procede a rilento perché la disponibilità di vaccini ormai è di circa la metà rispetto alle capacità di somministrazione: si potrebbe arrivare a duecentomila dosi al giorno in Italia, ma nell’arco di ventiquattr’ore non ne sono mai state iniettate più di centomila.

La proposta di 100 Paesi
Le accuse verso l’Europa avevano una doppia motivazione, secondo gli altri delegati al Wto. Non solo Bruxelles ha deciso di limitare l’export al resto del mondo di qualunque prodotto collegato ai vaccini, smentendo con le proprie azioni ciò che la Ue sostiene da sempre riguardo all’apertura degli scambi. Si oppone anche a far scattare una clausola prevista dagli accordi Trips del Wto («Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights») che, in caso di emergenze internazionali di salute pubblica, sospendono i monopoli sui farmaci garantiti dai brevetti. Alle case madri verrebbe riconosciuta una royalty, ma si potrebbe accelerare molto la produzione di vaccini e renderli finanziariamente abbordabili anche per Paesi a reddito medio-basso (dove per ora la copertura vaccinale è bassissima). È quanto stanno proponendo oltre cento Paesi a reddito medio-basso, guidati da Sudafrica, India, Jamaica, Egitto e Kenya, consapevoli che la loro rivendicazione ha un precedente. Nel 1997 Nelson Mandela, allora presidente del Sudafrica, incontrò a New York i leader di tutte le case farmaceutiche che producevano i costosissimi antiretrovirali per l’Hiv. Chiese loro di consentire la sospensione degli accordi Trips per permettere una produzione parallela più a buon mercato – sempre con pagamenti dei diritti ai detentori dei brevetti – in modo da prevenire una catastrofe in Africa. I capi di Big Pharma accettarono, soprattutto per evitare la perdita di reputazione che sarebbe seguita a un rifiuto.

Dall’Italia alla Francia
Ma adesso? La risposta dell’Europa per ora è che i produttori dei principali vaccini, da Pfizer-BioNTech a AstraZeneca, stanno già concedendo licenze di produzione ad hoc a vari concorrenti (per esempio, la francese Sanofi) e stanno aumentando la produzione in proprio. Ma un argomento del genere non basta a convincere la coalizione guidata da India e Sudafrica che in realtà i Paesi europei con una produzione nazionale di vaccini sul Covid-19 – oltre all’Italia con la Irbm-Advent di Pomezia, che contribuisce al progetto di Astra Zeneca, anche Olanda, Germania, Svezia e Francia – in realtà abbiano altri obiettivi: proteggere il potere di mercato delle loro imprese farmaceutiche anche di fronte a una catastrofe globale.

Il «peccato definitivo» di Ursula von der Leyen
Questo è solo l’ultimo, in ordine di tempo, degli imprevisti che Bruxelles sta incontrando nella campagna vaccinale. La settimana scorsa ne ha registrato un altro, per il quale la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha commesso quello che il commentatore tedesco Wolfgang Munchau definisce «il peccato definitivo» di un leader politico: scaricare pubblicamente la colpa di un errore sulla propria squadra. È successo quando i portavoce di von der Leyen hanno dichiarato che è stata del team di Valdis Dombrovskis, uno dei suoi vicepresidenti, la scelta di applicare un articolo dell’accordo sulla Brexit che permette di sigillare la frontiera fra la Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord. Era successo nei giorni precedenti, quando la Commissione che ha cercato di limitare l’export di vaccini dall’Unione europea dopo aver capito che le dosi stavano iniziando a scarseggiare. È stata una reazione di panico. Nei giorni precedenti AstraZeneca aveva comunicato che entro marzo avrebbe fornito alla Ue solo 31 milioni di dosi, non gli 80 milioni concordati. Anche Pfizer-BioNTech aveva fatto sapere che le consegne delle prossime settimane saranno più lente del previsto. Ma quella decisione di sigillare la frontiera irlandese, naturalmente, era esplosiva sul piano politico perché minava gli accordi di pace di Belfast del 1998.

Punto di arrivo
La misura è stata ritirata poche ore. Ma quella gaffe è solo il punto di arrivo di una serie di contrattempi per i quali la Commissione ha dovuto subire critiche dal Parlamento europeo e da alcuni dei principali governi nei suoi sforzi – peraltro reali – di fare avere i vaccini ai 440 milioni di cittadini della Ue.
Dopo un inizio di approccio comune fra quattro governi (Germania, Francia, Italia e Olanda), da fine giugno scorso si è infatti deciso che sarebbe stato l’esecutivo di Bruxelles a negoziare ed acquisire i vaccini per tutti i Paesi dell’Unione. L’obiettivo: una corsa al farmaco di tutti contro tutti, come avvenuto con i respiratori e le mascherine nella primissima fase della pandemia.
E la missione, nella sostanza, non è fallita: la Commissione ha concluso contratti con sei multinazionali per 2,3 miliardi di dosi, dei quali 300 milioni per l’Italia.
Il problema è la lentezza delle forniture. E, nell’attesa, è con gli errori di Bruxelles e in particolare di Von der Leyen che gli osservatori – soprattutto in Germania e nel Regno Unito post-Brexit – spiegano il ritardo europeo sui vaccini.

I negoziati con Big Pharma sulle dosi
Ecco tre fra le critiche principali che vengono mosse al modo in cui la Commissione ha firmato contratti con Pfizer-BioNTech, Moderna, Sanofi-Gsk, Johnson & Johnson, Curevac ed è in trattative con Novavax e Valneva.
Prima critica.
Nell’europarlamento si è contestato che la Commissione ha perso tempo prezioso, perché si è attardata a tirare sul prezzo dei vaccini. Così Bruxelles avrebbe spinto le case farmaceutiche a dare priorità alle forniture, a favore di altri committenti. Per esempio: Bruxelles paga 12 euro per ogni dose del vaccini Pfizer, mentre Israele sembra aver accettato un costo di 47 dollari «a persona» (dunque in doppia dose).
Risponde la direttrice generale alla Salute della Commissione, la friulana Sandra Gallina: «Il nostro prezzo è pienamente paragonabile a quello che paga il Regno Unito». Gallina è stata chiamata d’urgenza da Von der Leyen in estate nella sua posizione attuale, proprio per negoziare quei contratti dopo aver avuto un ruolo di primo piano nel concludere il trattato di libero scambio con l’America Latina (Mercosur). Nell’europarlamento si è difesa con forza: «Non avremmo ottenuto più vaccini con più soldi – ha detto –. Il problema è la produzione e la capacità produttiva non si crea dalla sera alla mattina». Inoltre, al Corriere fonti vicine ai negoziati hanno spiegato che le trattative sui prezzi non sarebbero mai state lunghe.
Seconda critica.
I negoziatori europei hanno impiegato molto tempo a discutere con le case farmaceutiche la questione della «responsabilità» (ovvero, chi paga se i vaccini provocano reazioni impreviste o se dovessero causare il decesso dopo la somministrazione). Ciò avrebbe contribuito a far sì che l’Unione europea ha concluso i suoi contratti con Pfizer e Moderna in ritardo rispetto alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti ed è passata dunque in coda anche sui tempi di fornitura. Negli Stati Uniti per esempio l’amministrazione, pur di accelerare sugli accordi, ha offerto una copertura assicurativa completa alle case farmaceutiche. In Europa no. Fonti vicine al negoziato ammettono al Corriere che le trattative sulle possibili indennità e le clausole sulle scadenze di consegna hanno preso tempo, ma per un motivo preciso: in Europa le correnti di opinione no-vax sono forti e si temeva che contratti squilibrati a favore delle case farmaceutiche avrebbero provocato una reazione ostile nell’opinione pubblica.
Terza critica.
La Commissione europea non ha esperienza nel trattare contratti farmaceutici e avrebbe finito per subire alcune condizioni sfavorevoli senza capirlo. La prima fra queste: l’aver accettato che Pfizer si impegnasse su certi quantitativi di consegne su base trimestrale (per esempio, 8,7 milioni di dosi all’Italia entro fine marzo e altri otto milioni entro fine giugno), senza vincoli precisi su base settimanale. Questa vaghezza sui tempi fa sì che la casa americana adesso punti a fornire il suo prodotto in gran parte nella parte finale del trimestre. Inoltre la Commissione sembra aver accettato che Astra Zeneca non assumesse impegni di fornitura vincolanti nel suo contratto, limitandosi a promettere il best effort: il «massimo dello sforzo». In altri termini, la casa farmaceutica saprebbe di non dover versare indennizzi in caso di ritardi.

Le responsabilità di sette governi
È molto probabile che questi problemi stiano pesando sulla lentezza della campagna vaccinale in Europa. Ma è difficile accusare la sola Commissione per questo. La task force costituita per trattare con Big Pharma includeva, accanto a Sandra Gallina per l’esecutivo di Bruxelles, anche i delegati di sette governi: Germania, Francia, Italia (rappresentata dal dirigente del ministero della Salute Giuseppe Ruocco), Olanda, Spagna, Polonia e Portogallo.
In realtà l’iniziativa di un approccio comune era partita in aprile 2020 proprio da Italia e Germania, come riferisce Walter Ricciardi. Ricciardi, consulente del ministro uscente della Salute Roberto Speranza, è stato al centro della diplomazia sanitaria in questi mesi. Ha rappresentato l’Italia da aprile a giugno nella «Inclusive Vaccine Alliance» che si era formata inizialmente solo fra i governi di Roma, Parigi, Berlino e l’Aia e aveva iniziato a negoziare un accordo con Astra Zeneca per tutta l’Unione europea. Ricciardi resta convinto che quella prima mossa sia stata «una vera svolta» e ha permesso di evitare una competizione distruttiva fra Paesi europei sui vaccini e tutti gli altri prodotti medicali necessari nella pandemia.

Adesso Sputnik?
Pur con tutti i suoi problemi, l’approccio europeo ai vaccini resta probabilmente l’unico possibile anche per l’Italia. Un esponente europeo di primo piano si dice convinto che non sarebbe stato possibile altrimenti prenotare 2,3 miliardi di dosi, di cui 300 milioni solo per l’Italia. Forse la sola Germania sarebbe riuscita a farsi valere, anticipando gli altri, ma le tensioni politiche fra governi dell’Unione sarebbero esplose. Ciascuna dose conquistata da un Paese sarebbe stata considerata sottratta agli altri 26, in una spirale nella quale avrebbero vinto solo le cause farmaceutiche.
Restano però alcune lezioni, qualche timore e un dubbio.
Fra le prime, c’è quella sulla vulnerabilità di Ursula von der Leyen. La vicenda dei vaccini ha messo in evidenza quanto sia fragile l’approccio centralizzatore di questa donna politica di carriera tedesca, che a Bruxelles di fatto vive all’interno del suo ufficio (in una dépendance nello stesso corridoio, per l’esattezza) e condivide tutto solo con pochissimi collaboratori di sempre che si è portata da Berlino. Persino i commissari europei sono spesso tenuti all’oscuro delle sue decisioni fino all’ultimo e vengono poi accusati in pubblico dalla stessa von der Leyen al primo incidente, come accaduto a Dombrovskis. Lo stile di leadership di von der Leyen la espone a gravi errori e sta provocando tensioni a Bruxelles. Il timore è invece relativo al fatto che del vaccino di Curevac, che dovrebbe fornire 30 milioni di dosi all’Italia a circa 250 milioni all’Unione europea, non si sa ancora niente. Per il momento l’azienda non ha fornito dati sulla sperimentazione neanche di «fase 1» (la più preliminare).
Ma più la vaccinazione procede a rilento, più il Covid-19 rischia di mutare e rendere poco efficaci i prodotti messi a punto fino ad oggi. Insomma, fare presto diventa doppiamente urgente. Anche per questo cresce fra alcuni governi europei, non solo in Ungheria, la tentazione di aprirsi al vaccino della russa Gamaleya: lo Sputnik V, che sembra efficace. Non sarà facile, per motivi politici e scientifici. Le tensioni diplomatiche con Mosca sono molto forti e la documentazione fornita da Gamaleya non basta perché le agenzie del farmaco europee possano concedere le autorizzazioni. Ma l’interesse per Sputnik V cresce, anche in Europa occidentale. Quella che sul piano sanitario rischia di essere una necessità, sul piano politico e amministrativo può rivelarsi una lezione che l’Europa non dimenticherà facilmente.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *