Fonte: Corriere della Sera
di Massimo Franco
Il tentativo di rilanciare il federalismo coincide con la moratoria di due anni decisa sui vaccini da parte della Regione Veneto: un peccato, per l’uso strumentale che si fa di temi delicatissimi, come la salute. E per i rischi del «fai da te»
È un peccato che il tentativo di rilanciare il federalismo da parte della Lega coincida con la moratoria di due anni sui vaccini decisa dalla Regione Veneto. Il rischio concreto non è solo quello di offrire una visione un po’ oscurantista di una regione saldamente ancorata all’Europa; e governata da anni e con ampi consensi dal centrodestra. La prospettiva è quella di piegare un’operazione dai contorni controversi ma ambiziosi a polemiche strumentali. Il pericolo è di dare spazio e ossigeno a posizioni al limite del rifiuto di alcune conquiste scientifiche che dovrebbero essere patrimonio comune dell’Italia, e non solo. Negli anni, il Nord ha tentato ripetutamente col movimento di Umberto Bossi di emanciparsi da quello che ha percepito come uno Stato prepotente e inefficiente. Con i governi di Silvio Berlusconi l’offensiva «nordista» si è concretizzata anche in Parlamento, senza tuttavia approdare a grandi risultati. Anzi, si è avuta una sorta di risacca che ha mostrato tutti i limiti di quell’operazione. Ora il Veneto tenta di riproporre un simulacro di indipendenza da «Roma» col referendum sull’autonomia della Regione fissato per il 22 ottobre. Ma nasce con le peggiori premesse. Quella annunciata dal governatore della Lega, Luca Zaia, promette di apparire come una «secessione sanitaria»; e di associare referendum e alt alla vaccinazione obbligatoria a scuola, creando una miscela che il resto dell’Italia faticherebbe a capire. Su questa strada, la resurrezione del federalismo potrebbe trasformarsi nella sua pietra tombale. Si intravede un alone di anti-scientificità incompatibile con la voglia di modernità e di emancipazione dal potere centrale alle quali il Veneto dice di aspirare.
La motivazione ufficiale della Regione è che si vuole permettere a tutti di iscriversi a scuola, anche a chi non ha ancora vaccinato i figli: le norme che regolano la materia, si sostiene, non sarebbero chiare. Ma è difficile sfuggire al sospetto che il rinvio sia legato anche al referendum del 22 ottobre. A torto o a ragione, il no ai vaccini rischia di diventarne la bandiera: una bandiera dai colori cupi, a questo punto. Si tocca e si usa strumentalmente un tema delicato, che suscita paure e sospetti nelle famiglie. E si fomenta la sfiducia nelle istituzioni anche quando agiscono per il bene comune.
La Lega rompe il monopolio del Movimento Cinque Stelle, che sulla polemica contro i vaccini aveva speculato nel recente passato prima di fare una imbarazzata marcia indietro. Ma è un’operazione scivolosa. Prefigura un leghismo premoderno, di retroguardia, che raschia il barile delle polemiche antistatali. Evidentemente, lo scontro con il «governo di Roma» è considerato una sorta di talismano del successo. Si tratti di immigrazione, tasse, Europa, l’importante è smarcarsi: operazione magari strumentale ma legittima.
Quando si parla di salute pubblica, però, il federalismo non può essere declinato come un «fai da te» che prefigura una pericolosa autarchia. Rivendicare un’agenda contrapposta a quella del governo fa parte del bagaglio di un’opposizione. E si può comprendere anche il tentativo leghista di difendersi dalle incursioni dei seguaci di Beppe Grillo nel suo elettorato. Ma in questo caso è facile indovinare che prevarrà la lettura di una spregiudicata trovata elettorale. Più dell’aspetto politico, a preoccupare è il messaggio regressivo che la decisione rischia di trasmettere sul piano culturale.
Forse potrebbe portare qualche voto estremista in più. La logica sarebbe inevitabilmente perdente, però: agli occhi dell’Italia e dell’Europa.