19 Settembre 2024
orban elezioni Ungheria

orban elezioni Ungheria

Orbán ha condizionato le decisioni dell’Unione ma ha anche offerto un comodo alibi a molti altri governi dell’Unione, a cominciare da quello tedesco , che hanno manifestato la loro scarsa volontà di opporsi fino in fondo all’aggressione russa all’Ucraina

Per l’ennesima volta l’Unione europea ha mostrato in questi giorni la sua congenita difficoltà, solo dopo estenuanti trattative superata, di prendere le decisioni che contano. Ancora una volta si è dimostrato quale trappola senza via d’uscita sia la regola capestro dell’unanimità che essa si è data, e che ha permesso per giorni al governo di un Paese come l’Ungheria di neppure dieci milioni di abitanti (più o meno il 2-3 per cento della popolazione dell’intera Unione), di bloccare la decisione circa l’embargo sulle importazioni di petrolio dalla Russia. E perfino, sembra incredibile, d’impedire che l’Unione prendesse qualche misura sanzionatoria contro Kirill, il «chierichetto di Putin» come lo ha definito il Papa.
Ma non nascondiamoci dietro un dito. Con il suo no ostinato Orbán — il quale forse ne è perfettamente consapevole — ha offerto un comodo alibi a molti altri governi dell’Unione, a cominciare da quello tedesco, che in queste settimane non hanno mancato di manifestare in mille modi la loro scarsa, scarsissima, volontà di opporsi fino in fondo all’aggressione russa all’Ucraina. Che non ne vogliono sapere (naturalmente cercando di non farlo vedere troppo) di percorrere fino in fondo la via delle sanzioni contro Mosca.
Sono stati davvero pochi finora i governanti del continente che sull’argomento hanno adoperato le parole chiare, dure, senza possibilità di equivoci, che ha adoperato il presidente Draghi.
Il fatto è che la guerra è un’infallibile cartina al tornasole. In un modo o nell’altro essa infatti, mettendo in gioco gli interessi primari, gli interessi vitali di una collettività, comunque quelli che essa considera tali, fa emergere la sua realtà profonda. È allora dunque che si vede di che cosa essa è fatta, quali sono i suoi tratti costitutivi e i suoi principi, quali stati d’animo governino i suoi cittadini. Per avere un’idea di come stiano realmente le cose non è necessario che si arrivi alla prova ultima del combattimento. Bastano le reazioni che suscita il semplice «discorso» della guerra, il semplice sentore di un’ostilità aspra e potenzialmente ultimativa. Basta quindi, come in questo caso, vedere come stanno reagendo tutte le opinioni pubbliche dei maggiori Paesi europei all’eventualità che resistere alla prepotenza russa comporti un periodo di difficoltà economiche magari gravi, di privazioni. Più o meno esplicitamente ma in maggioranza con un netto rifiuto: in un regime democratico i governi, come è ovvio, non fanno poi che adeguarsi.
Sia chiaro: non si tratta di sottovalutare i pericoli che ci stanno di fronte o tanto meno di augurarsi l’esplosione di chissà quali furori bellicisti. Guai se in circostanze come le attuali non si badasse alla cautela nelle parole e alla ponderatezza dei propositi. Ma il punto non è questo. È che nell’atmosfera oggi dominante nell’ Europa continentale non si respira prudenza e avvedutezza ma dell’altro. Si respira voglia di non avere fastidi, di girare la testa dall’altra parte, si sente solo il desiderio di non essere chiamati a scelte importanti e Dio non voglia onerose. E si avverte prepotente ciò che ne consegue: l’intenzione di restare fuori dall’arena dove si decidono le sorti del mondo. Quella non è più roba per noi.
E forse le cose stanno proprio così. La grande storia non è più roba per noi, neppure nell’unica parte che oggi ci è possibile, quella di comprimari anche se non proprio di ultima fila. Sulle spalle dell’Europa — di quella continentale beninteso, per la Gran Bretagna il discorso è del tutto diverso — pesa il passato di errori e di sconfitte del Novecento che ha cancellato tutto quanto veniva prima e che pure qualche punto all’attivo ci aveva fatto guadagnare. Nel quinquennio terribile dal 1940 al ’45 il fascismo, il nazismo, il dispotismo più vario (tutta roba nata in Europa) e poi la resa e il collaborazionismo dovunque, la complicità con il razzismo dappertutto e infine la salvezza ma arrivata d’oltremare, non solo hanno avuto nell’immediato l’effetto di cancellare virtualmente ogni antica potenza dell’Europa, ma, quel che più conta, hanno spezzato per sempre il suo orgoglio e l’immagine di sé che essa aveva. È come se il ’45 avesse inghiottito secoli di storia del continente. Da quella data l’Europa non ha più un passato, non sa più che cosa è, che cosa ci sta a fare nel mondo.
E di conseguenza anche le sue opinioni pubbliche non sanno più nulla della loro storia, più nulla dei valori politici su cui i loro Stati sono stati costruiti e a cui dicono di ispirarsi; men che meno sanno del prezzo che è costata l’affermazione di quei valori e a che cosa almeno in teoria essi dovrebbero impegnarci. Ma qualunque discorso sui valori sembra ridicolo. L’unica cosa che nel discorso pubblico sembra contare sono gli interessi, pressoché solo di quelli si parla ogni sera nei talk show: quanto verrà a costarci la resistenza di questi ucraini che si ostinano a morire pur di difendere il loro paese. Si può essere sicuri che a Mosca Putin prende nota soddisfatto.

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