Autori celebri ed editori, come quello del New York Times, hanno denunciato OpenAI. Altri, dall’Associated Press al tedesco Axel Springer, ai giornali di Murdoch, hanno preferito accordarsi cedendo i propri archivi in cambio di compensi
A San Francisco il cuore della sede di OpenAI, leader dell’intelligenza artificiale, è una grande biblioteca, simile a quelle di atenei gloriosi. L’ha voluta il fondatore, Sam Altman: zeppa di libri di tutte le culture, in gran parte scelti da lui stesso. Paradossale, secondo molti, visto che i large language models (LLM), a partire dal suo ChatGPT, costruiti per dare a ogni domanda una risposta unica, senza citare fonti, tolgono valore ai contenuti di qualità, compromettendone la produzione. Paradossale e anche beffardo, aggiungono altri, visto che, a differenza di tutte le app, questi LLM sono addestrati, e quindi funzionano, proprio grazie a questi contenuti di qualità raccolti in rete: enciclopedie, saggi, romanzi, articoli giornalistici e altro. Lo storico della tecnologia Yuval Noah Harari vede rischi esistenziali: conquistando il controllo del linguaggio, gli LLM «hanno hackerato il sistema operativo dell’umanità». Il mondo dell’AI si sente, invece, portatore di un progresso inarrestabile fatto di risposte istantanee offerte a tutti gli utenti.
Editori e scrittori cercano di difendere il loro lavoro intellettuale fin qui usato gratis dal mondo AI, convinto di non violare le norme sul copyright, in assenza di un vero sfruttamento commerciale. Autori celebri ed editori, come quello del New York Times, hanno denunciato OpenAI. Altri, dall’Associated Press al tedesco Axel Springer, ai giornali di Murdoch, hanno preferito accordarsi cedendo i propri archivi in cambio di compensi.
Un anno fa Barry Diller, editore di pubblicazioni digitali e cartacee (come People e Food&Wine) ha messo insieme una cordata di editori con la missione di «contrastare la marcia dell’AI che distrugge il nostro business». Qualche giorno fa, però, ha firmato un accordo separato con OpenAI che pagherà la sua azienda. Comprensibile per Ben Smith, editore di Semafor: «Gli editori non vogliono ripetere l’errore fatto nell’era dei social media: gli consegnarono i loro contenuti gratis». Errore madornale replica la direttrice di The Information, Jessica Lessin: «Dieci anni fa ci si poteva illudere che le reti sociali avrebbero distribuito anche contenuti giornalistici. Oggi i chatbot sono disegnati per bypassare completamente l’editoria, ma i risultati sono mediocri: vendendogli i nostri contenuti li aiutiamo a completare l’opera».