22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Franco Venturini

Chi ha imposto un ultimatum ha suscitato una risposta nazionalista tipica dei Paesi latinoamericani. Meglio usare tattiche diplomatiche: Maduro è ancora lì, e Guaidó non sembra disporre di una strategia precisa


Il Venezuela è uno scandalo da molto tempo, e per molto tempo la comunità internazionale gli ha prestato pochissima attenzione. Eppure Nicolás Maduro, successore nel 2013 del «bolivariano» Hugo Chávez, era stato eletto soltanto in ossequio al leader defunto. Erano diventate subito evidenti la sua totale incompetenza economica e le sue propensioni dittatoriali. I negoziati con l’opposizione (favoriti dal Vaticano) si erano risolti in altrettante messe in scena. Le accuse di corruzione si moltiplicavano. La fuga per fame, anche di chi aveva sostenuto Chávez, assumeva proporzioni bibliche (l’Onu parla di 5.000 persone al giorno, per un totale provvisorio di oltre tre milioni). I partiti dell’opposizione, esclusi di fatto dalle elezioni presidenziali del 2018 ma maggioritari nel nuovo Parlamento, erano stati privati di ogni potere e sottoposti ad arresti in serie. E tuttavia, il Venezuela continuava a detenere le più grandi riserve petrolifere del mondo. E gli Usa continuavano, e hanno continuato a lungo, ad acquistare più della metà della produzione di greggio venezuelana, mentre raffinerie di Caracas operavano in Louisiana e in Texas.
Perché, allora, la situazione è cambiata nei primi giorni dell’anno? Perché dal 5 gennaio il giovane ingegnere Juan Guaidó è diventato, in base a un sistema di rotazione tra le forze anti-Maduro, il presidente del Parlamento emarginato. Perché la catastrofe umanitaria era diventata inaccettabile per gli Usa e per tanti altri. Perché Washington capiva di «dover fare qualcosa» e l’autoproclamazione presidenziale di Guaidó, benché discutibile dal punto di vista costituzionale, è sembrata un utile primo passo per riportare il Venezuela alle urne e alla democrazia. E anche perché la penetrazione della Russia e della Cina in un Paese latinoamericano e tanto ricco di risorse appariva a Trump e al suo consigliere Bolton del tutto insopportabile? È probabile, ma nessuno ce lo dirà.
Questi pochi cenni alla storia recente del Venezuela sono indispensabili se si vuole cercare una risposta equilibrata alla questione del «che fare?» presente in tutte le cancellerie con una urgenza sempre maggiore. Perché Maduro è ancora lì, e Guaidó non sembra disporre di una strategia precisa. Dovremmo, per prima cosa, capire la saggezza di due appelli alti venuti da papa Francesco e, ieri, dal presidente della Repubblica Mattarella: serve una soluzione giusta e pacifica che rispetti i diritti umani, ha detto Francesco. Non ci può essere incertezza tra democrazia e violenza e serve una linea condivisa con l’Europa, ha detto Mattarella. E in questi due propositi sono presenti, parola dopo parola, i valori da difendere e i modi per farlo.
Guardiamo alla realtà delle cose, oggi. Gli Stati Uniti sono stati bravi nel favorire la creazione di un fronte multilaterale pro-Guaidó che riunisce ormai una trentina di Paesi. Ma visto che qualche ruolo ispiratore gli Usa l’hanno di certo avuto, ha senso parlare con i militari dopo invece di prima, sapendo che sono loro a controllare l’ago della bilancia? Alla Russia e alla Cina non è parso vero di fronteggiare gli Usa nel loro «cortile di casa», come in altri tempi Mosca aveva già fatto a Cuba, e di tenere un occhio sugli immensi giacimenti petroliferi venezuelani. Ma c’è anche il rischio di una rottura con gli Usa, che nessuno dei due vuole.
E poi ci sono l’Europa e l’Italia. A noi italiani nulla in politica estera dovrebbe ormai sorprenderci, sappiamo che l’estero è diventano soltanto un terreno di scontri pre-elezioni, e poco importa se si parla di Tav (c’è di mezzo la Francia) o di Venezuela. In questa fase la nostra politica estera è fatta di parole vuote (Salvini sulle sanzioni alla Russia), di poco credibili spiegazioni al bar fornite al nostro cruciale alleato tedesco (Conte) o di liti tra Lega e 5Stelle imbastite sul nulla (i dissapori su un «piano per studiare» il ritiro dall’Afghanistan, se Trump darà il via). Ma a forza di ignorare i nostri interessi nazionali e di proiettare all’esterno una immagine autolesionista, nel caso Venezuela il governo gialloverde potrebbe aver azzeccato, involontariamente, una rotta indovinata.
Il gruppo dei dieci Paesi europei guidato dalla Spagna e comprendente Francia, Germania e Gran Bretagna che ha riconosciuto Guaidó dopo aver posto a Maduro un ultimatum elettorale, oggi scopre di aver trascurato il nazionalismo di ogni Paese latinoamericano e di aver in realtà fatto il gioco del dittatore per seguire le ambizioni regionali di Madrid. Più accettabile per i venezuelani potrebbe essere l’iniziativa della Mogherini che giovedì parteciperà con l’Europa tutta (anche i «dieci») a una riunione a Montevideo. Riunione che dovrebbe avere un unico fine: quello di convincere i militari di Caracas a imporre loro a Maduro nuove elezioni presidenziali, libere e con una solida supervisione internazionale. E «conquistare» nel frattempo il Venezuela con un programma di aiuti di prima necessità che Maduro non oserà fermare sapendo in quali condizioni ha ridotto il suo popolo.

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