19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Massimo Gaggi

Biden archivia l’illusione di poter esportare la democrazia arginando con la presenza militare feroci dittature che non rispettano i diritti civili. E gli Usa, non lo scopriamo oggi, rinunciano al ruolo di gendarme di un mondo sempre più frammentato


Ritirando le truppe americane dall’Afghanistan Joe Biden archivia l’illusione — coltivata vent’anni fa dai neoconservatori repubblicani, ma poi diffusa anche tra i democratici — di poter esportare la democrazia arginando con la presenza militare feroci dittature che non rispettano i diritti civili. Buone intenzioni che nel primo scorcio di questo secolo si sono infrante contro realtà storiche difficili da modificare o hanno addirittura fatto saltare precari equilibri, dall’Egitto alla Libia, dallo Yemen alla Siria. La decisione, coraggiosa e controversa, del presidente democratico va vista a due livelli: quello dei rapporti internazionali coi rischi di un Afghanistan di nuovo radicalizzato che può tornare base di gruppi terroristici mentre Washington pensa di sorvegliare e, se necessario, intervenire da lontano usando la tecnologia dell’intelligence digitale e dei droni. Ma è importante anche l’aspetto dei riflessi interni negli Stati Uniti, stremati dall’impegno bellico più lungo della loro storia (il Vietnam, l’altro conflitto «senza fine» durò otto anni). Qui Biden, lontano anni luce da Donald Trump per mille aspetti, assume una posizione simile alla sua: la guerra in Asia Centrale liquidata come total waste, una colossale distruzione di risorse, non solo economiche. C’è di più: Biden si appropria di tre caposaldi di Trump — la fine della guerra, ma anche l’aiuto ai forgotten men, l’America impoverita, e il piano per le infrastrutture — cercando di trasformare in fatti quello che il suo predecessore ha annunciato per anni ma non ha mai realizzato.
In termini di proiezione dell’influenza americana nel mondo, questa decisione non rappresenta di certo un momento esaltante, ma contiene una presa d’atto di un mutamento degli scenari internazionali, di errori commessi e anche dei nuovi problemi interni degli Stati Uniti, forse non più rinviabile. Biden lo ha detto con franchezza nel suo messaggio alla nazione quando, da quarto presidente alle prese con questo conflitto, ha sostenuto di non volerlo trasferire al quinto.
Del resto lui era convinto già da più di un decennio che, eliminate le basi di Al Qaeda, l’America dovesse disimpegnarsi dall’Afghanistan «cimitero degli imperi» senza pretendere di imporre democrazia e diritti civili. Nelle sue memorie Barack Obama racconta che, appena divenuto presidente, fu incalzato da Biden, suo vice e contrario all’espansione della presenza militare in Afghanistan, che lo invitava a non farsi chiudere in un angolo dai generali. E George Packer in «Our Man», il suo bel libro sul grande diplomatico Richard Holbrooke, racconta che Biden, incontrando nel 2010 l’allora inviato speciale Usa in Afghanistan, si sfogò in privato, parlando del figlio Beau allora militare a Kabul: «Mio figlio rischia la vita per difendere i diritti delle donne, ma non funzionerà: non li abbiamo mandati lì per questo».
Il ritiro, ovviamente, comporta problemi enormi e di varia natura: intanto il rischio che il governo di Kabul venga spazzato via dai talebani con vendette nei confronti di chi ha collaborato con gli occidentali e il rischio che il Paese torni a offrire riparo a organizzazioni terroriste. Washington promette che continuerà a incidere sulla politica afghana e a proteggere i suoi alleati anche senza una presenza diretta. Un modello analogo agli interventi antiterrorismo effettuati con una certa frequenza in Africa, dalla Somalia alla Libia. Ma anche gli attacchi coi droni hanno bisogno di intelligence sul terreno e non è chiaro se i governativi afghani potranno continuare a fornirla. Così come non è chiaro il destino delle migliaia di contractor civili che operano in Afghanistan nel campo della sicurezza né quello dei mille soldati-ombra che non compaiono nel conteggio del contingente dei 2.500 che verranno ritirati entro l’11 settembre. Si tratta soprattutto di rangers del Pentagono che sono, però, inquadrati in missioni della Cia. Biden ha detto solo che deciderà in futuro come proteggere i diplomatici e la missione Usa che resterà nel Paese.
Il ritiro può, poi, ampliare il ruolo della Turchia: ospiterà a Istanbul i negoziati tra le diverse forze afghane e, in virtù del suo ruolo di mediazione, per ora potrebbe non ritirare il suo contingente militare, presente nel Paese nell’ambito del dispositivo della Nato. Potenzialmente un riferimento prezioso per l’intelligence americana.
Intanto sembra al crepuscolo la filosofia dell’ingerenza umanitaria e della rimozione di feroci dittatori: idee che si erano rafforzate anche a sinistra con l’intervento militare contro i genocidi nella ex Jugoslavia e, poi, con le illusioni internettiane alimentate dai giovani di piazza Tahir al Cairo. Tutte cose passate attraverso il tritacarne della dittatura militare in Egitto, della devastazione della Libia (con influenze russe e turche) dopo l’eliminazione di Gheddafi e anche di altri episodi come l’umiliante rinuncia di Obama a punire Assad per il suo uso di armi chimiche contro i ribelli e anche contro la popolazione civile.
L’America, non lo scopriamo oggi, si sta ritirando dal suo ruolo di gendarme di un mondo sempre più frammentato, mentre, dal Golfo all’Asia meridionale, cresce il ruolo delle potenze regionali. Pesa anche la pandemia che ha cambiato le priorità. E, dopo gli anni della tempesta trumpiana, gli Stati Uniti, più che dare lezioni di democrazia al mondo, devono pensare soprattutto a riparare le ferite interne che qualche mese fa hanno fatto vacillare le sue istituzioni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *