20 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Lucrezia Reichlin

Dagli anni Settanta ai primi Novanta, Italia, Francia e Germania crescevano di pari passo. Poi hanno cominciano a divergere. La contraddizione tra il progetto federale dei padri fondatori e la natura imperiale dei rapporti tra Paesi dell’Unione è ora l’ostacolo maggiore al processo d’integrazione politica


Tradizionalmente i governi soffrono quando l’economia va male. Nonostante la ripresa, l’Europa risente ancora dell’eredità di una lunga crisi che ha lasciato debito, disoccupazione e povertà. Non è quindi sorprendente che i partiti populisti siano in crescita dovunque e che propongano un’agenda nazionale in opposizione a Bruxelles. Si capisce anche che in molti Paesi, inclusa l’Italia, i partiti tradizionali si lascino tentare dalla retorica della sovranità nazionale. Ma l’idea della rinuncia progressiva alla sovranità nazionale è sempre stata centrale nel progetto dell’Unione Europea (Ue). Il risorgere del nazionalismo suggerisce quindi che quest’ultimo stia attraversando una crisi di legittimità. È questa la realtà?
Semplificando al massimo si può ricostruire la logica del progetto dell’Ue nel modo seguente: alle origini la creazione del mercato unico fu vista come uno strumento necessario a facilitare la convergenza dell’economia europea verso quella degli Stati Uniti. L’integrazione economica richiedeva un alto grado di coordinamento politico che fu reso possibile dal fatto che i Paesi fondatori più grandi — Germania, Francia e Italia — avevano interessi e anche un peso economico simile. È impressionante constatare come dall’inizio degli anni Settanta, quando si concluse il periodo di alta crescita della ricostruzione e del miracolo economico, all’inizio degli anni Novanta, le performance economiche dei tre grandi Paesi europei siano state simili e il tasso di crescita pro-capite praticamente lo stesso.
Ma all’inizio degli anni Novanta le cose cambiano. Sono due i fattori fondamentali. L’Italia entra in un periodo di stagnazione che la discosta da Germania e Francia e la Germania, grazie all’unificazione, acquista 20 milioni di cittadini. Da quel momento l’equilibrio di potere tra i tre Paesi muta radicalmente. La crisi ha poi fatto il resto poiché i meccanismi di aggiustamento all’interno dell’eurozona hanno sfavorito i Paesi più fragili, tra i quali l’Italia.
Questo rende molto difficile intraprendere le trasformazioni che la Ue deve affrontare per rafforzarsi. Ancor più difficile per l’eurozona che deve completare pezzi del suo governo economico, ma che non può farlo a meno di non approfondire l’integrazione politica. Non è chiaro se si avrà la forza di andare in questa direzione, ma se veramente si rilanciasse questo processo la politica più che l’economia ne sarebbe, necessariamente, il fulcro. Sarebbe inevitabile, quindi, che siano le capitali nazionali a guidarlo, relegando Bruxelles a un ruolo tecnico.
Con l’equilibrio economico tra i tre grandi Paesi che — come abbiamo visto — è così profondamente mutato, quale alleanza stabile è possibile tra Berlino, Parigi e Roma? Realisticamente, la Germania e i suoi tradizionali alleati del Nord sarebbero destinati alla cabina di comando consolidando l’asimmetria europea. Tuttavia è proprio a questo fondamentale disequilibrio che i cittadini europei rispondono negativamente, non alla Ue in se stessa. Non è sorprendente, infatti, che il Paese più favorevole all’Europa sia oggi la Germania.
La contraddizione tra il progetto federale dei padri fondatori e la natura imperiale dei rapporti tra Paesi dell’Unione è ora l’ostacolo maggiore sulla via del processo d’integrazione.
Un problema da affrontare con lucidità se si vuole, davvero, ridare slancio al cammino europeo recuperando il consenso dei cittadini.

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