Quando parliamo di città «di sinistra» e «di destra» parliamo di tradizioni che non esistono più, perché le appartenenze sono finite. Le ragioni sono molte, ma la radice è una: la politica non è più sentita come importante, nessuno pensa più di affidarle la vita
Se c’è una città di destra in Italia, quella è Verona; dalla curva dell’Hellas alla Curia (tranne qualche eccezione, tra cui non c’è l’attuale vescovo, che ha invitato a non votare per chi sostiene la teoria gender, cioè a votare per il sindaco sconfitto).
Se c’è una città di sinistra in Italia, quella è Genova. Repubblicana quando l’Italia era monarchica, antifascista quando l’Italia era fascista, comunista quando l’Italia era democristiana. La città dove la gente apre i portoni ai manifestanti in fuga dalla polizia, nel luglio ’60 come nel luglio 2001.
Ebbene, Verona si è data un sindaco di sinistra. Ma l’enfasi per la vittoria di Damiano Tommasi non deve far dimenticare quella non meno significativa di Marco Bucci al primo turno (Genova ha più del doppio degli abitanti di Verona).
In realtà, quando parliamo di città di sinistra e di destra, parliamo del passato. Di una tradizione che non esiste più, o comunque rappresenta un tono medio, un retaggio, uno sfondo su cui si muove il presente. Non soltanto sono finite le ideologie, ma pure le appartenenze.
Sesto San Giovanni, l’ex Stalingrado d’Italia, la città-fabbrica, rielegge il sindaco di centrodestra, nonostante la débâcle generale ai ballottaggi e le palesi difficoltà della Lega al Nord.
Cuneo, già molto democristiana e poi molto leghista, elegge una sindaca di centrosinistra con quasi il 65%.
Poi, certo, le cause sono tante. Quando si vota per i sindaci si sceglie la persona, non il partito; quando si vota per le politiche le tradizioni contano di più, o meglio ci si divide secondo le linee emerse in questi ultimi anni: centri contro periferie, città contro campagna; per cui ai Parioli, quartiere considerato nero, vince il Pd, e nelle borgate un tempo rosse prevale (anche se non sempre) la destra.
Non è un fenomeno soltanto italiano. Domenica scorsa la Colombia ha eletto un presidente di sinistra per la prima volta nella storia, superando sia il rifiuto del passato guerrigliero, sia la paura del contagio del vicino Venezuela. Da una settimana la Spagna sta discutendo di quel che è accaduto in Andalusia: il bastione socialista, la comunità che aveva resistito al franchismo – i difensori di Malaga fucilati e gettati nelle fosse comuni, il corpo mai ritrovato del granadino Garcia Lorca -, la terra di Felipe Gonzalez alle elezioni amministrative ha attribuito al partito popolare (fondato dal braccio destro di Franco, Manuel Fraga Iribarne, galiziano come il Caudillo) il doppio dei seggi del Psoe.
Le spiegazioni sono molte. La volatilità del voto. L’influenza dei social. La fluidità delle opinioni. Gli sbalzi della partecipazione: in Italia alle politiche votano quasi il doppio degli elettori rispetto ai ballottaggi per le comunali. Inoltre, la storia recente dimostra che negli ultimi giorni prima del voto si creano correnti sotterranee, che i sondaggi faticano a intercettare, e che sospingono l’onda del vincitore, ampliano i margini, a volte rovesciano previsioni (Brexit, Trump).
Non c’è da lamentarsi, anzi: è positivo che non esistano posti e collegi sicuri, che le città siano contendibili, che quasi nessuno possa dare quasi nulla per acquisito. Significa che la democrazia non è bloccata, l’alternanza bene o male funziona, e quando l’elezione è diretta i partiti e le coalizioni devono mettere in campo personaggi credibili; mentre quando si tratta di comporre liste bloccate tendono a prediligere fedeltà vere o presunte (più presunte che vere, visto il trasformismo dilagante).
La labilità delle appartenenze fa sì, ad esempio, che i Cinque Stelle possano passare dall’alleanza con Salvini a quella con il Pd e la Boldrini nel giro di una settimana.
Eppure, nell’infinita vertigine delle possibilità, c’è anche questa: la politica non è più così importante. Nessuno pensa più di affidarle la vita.
Pochi credono che la politica possa davvero cambiare le cose. Bezos ha più potere di Obama, Zuckerberg di Trump, Musk di Biden; o almeno questa è la percezione.
Qualcuno ritiene che votare sia inutile: tanto la propria opinione la esprime sui social, non su una scheda anonima.
E tanti sono convinti che una persona non possa fare qualcosa nell’interesse di qualcuno che non sia se stesso, o un proprio familiare.