Il governo non vuole strappi con Pechino. Sulla Nato la premier prende tempo
Da poche ore è arrivato a Pechino il nuovo ambasciatore italiano, Massimo Ambrosetti. Giorgia Meloni lo ha scelto, contrariamente alle attese, per due motivi: è un grande esperto di cybersecurity e vanta studi accademici di grande rispetto, compreso un Phd a Cambridge, sulla Cina e l’ascesa economica del colosso diretto da Xi Jinping. Ambrosetti ha salutato i colleghi della Farnesina condividendo due impressioni relative a uno dei dossier più delicati che dovrà gestire: l’Italia ha già deciso di uscire dal discusso accordo commerciale con i cinesi siglato sotto il governo Conte I, gli americani ne sono stati informati.
A meno di venti giorni dal G7 di Tokyo, dove i leader discuteranno a lungo delle relazioni dell’Occidente con Pechino, ritorna alla ribalta la decisione che entro la fine dell’anno Meloni dovrà prendere: restare o meno dentro il Memorandum che lega l’Italia, unico Paese del G7, alla Belt and Road Initiative dei cinesi (Bri). Per uscirne Roma dovrà dare una disdetta entro dicembre e alcune indiscrezioni giornalistiche raccontano di una pressione sempre più forte di Washington su Palazzo Chigi.
Sulla Bri sono stati scritti fiumi di inchiostro. Da diverse angolazioni. È un cavallo di Troia delle mire commerciali cinesi, secondo i detrattori. È stato un passo falso di Gentiloni (che per primo aderì all’idea) e Conte, per di più messo nero su bianco dal secondo con una svista tecnica di peso (l’obbligo di una disdetta invece della più semplice mancanza di un rinnovo automatico), secondo la vulgata nell’attuale governo. È una delle condizioni (la disdetta italiana) di una relazione serena fra Giorgia Meloni e Joe Biden, che la riceverà alla Casa Bianca a giugno.
Secondo quanto risulta al Corriere, in ogni caso, non esiste alcuna pressione americana per un semplice motivo: già da alcuni mesi interlocuzioni periodiche fra gli staff dei due presidenti, incluse visite ufficiali e ufficiose, hanno al centro del confronto il dossier Bri. E alla Casa Bianca sanno benissimo, perché così gli è stato in qualche modo garantito, che il problema «non è il se ma il quando», e ovviamente questo lo deciderà Meloni, magari durante la visita a Pechino, entro la fine dell’anno.
Il confronto periodico fra Roma e Washington, sia a livello governativo che di apparati di sicurezza, da quando si è insediata la premier, viaggia sulla costruzione di un facing out dall’accordo dato da entrambi gli interlocutori per scontato. Il Memorandum sotto il governo Draghi è restato congelato e lo è tuttora.
A meno che Giorgia Meloni non cambi idea, ci sarà da costruire un paracadute di sicurezza per non compromettere le nostre relazioni con Pechino, ma è sempre nel nostro governo che si raccoglie una considerazione di sostanza, non di forma: «Macron non è entrato nella Bri, ma fa affari su tecnologie strategiche con i cinesi». E dunque non è detto che Xi Jinping non possa rinunciare ad avere l’Italia come fiore all’occhiello democratico dentro il suo grande progetto, se avesse delle contropartite sostanziali.
C’è un altro dossier che Meloni ha dovuto gestire nelle ultime ore: nel corso della visita a Londra il premier Rishi Sunak ha chiesto l’appoggio per rafforzare la candidatura del suo ministro della Difesa, Ben Wallace, alla futura guida della Nato. La presidente del Consiglio ha registrato la richiesta, ma nulla di più, gli alleati europei per ora vagliano profili diversi: dalla finlandese Sanna Marin alla premier estone Kaja Kallas, sino al premier olandese Mark Rutte. Mentre sulla carta Ursula von der Leyen, sembra che Berlino preferisca le voglie delle presidente della Commissione europea di essere riconfermata nel suo ruolo.