22 Novembre 2024

Fonte: La Stampa

di Attilio Borsoni

È un pomeriggio caldo, di luce violenta. Un sabato italiano del 1992. La terra trema, sembra una scossa di terremoto. Ma è una carica di cinquecento chili d’esplosivo che ingoia Giovanni Falcone, al km 4+773 dell’autostrada che corre dall’aeroporto fino alla città. Allo svincolo di Capaci, prima della grande curva

Le reti sono già al largo, calate a mezzo miglio dalla secca. Ma ancora non soffia il maestrale che spinge dentro i pesci, che li trascina verso la costa. Giochi di venti e di correnti. Poi arriva l’onda lunga di ponente e l’ultimo branco scivola nell’ultima “camera”, che è quella della morte. Con il mare siciliano che si colora di mattanza rosso sangue. I suoi cinquantatré anni e cinque giorni li vuole festeggiare a Favignana per il passaggio dei tonni, il misterioso cammino che da secoli e secoli si ripete a ogni primavera quando fra le onde vengono apparecchiate ingegnose trappole fatte di nodi e cime, funi, cavi, grovigli di cordame che sono labirinti di inganno. A maggio, nella tonnara c’è finito anche lui.
È un pomeriggio caldo, di luce violenta. Un sabato italiano del 1992. A Roma, dopo quindici scrutini e quindici fumate nere, deputati e senatori non riescono ancora ad eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. A Palermo già si tuffano dagli scivoli di cemento dell’Addaura. Patti segreti, bagni di sole, sudori di potere e di calura mentre la velina di una piccola agenzia giornalistica avvisa «di un botto esterno, qualcosa di drammaticamente straordinario» che potrebbe influenzare la corsa al Quirinale. Premonizioni. Poi la terra trema, sembra una scossa di terremoto. Ma è una carica di cinquecento chili d’esplosivo che ingoia Giovanni Falcone, al km 4+773 dell’autostrada che corre dall’aeroporto fino alla città. Allo svincolo di Capaci, prima della grande curva.
La strage di Capaci. La bomba di Capaci. L’inferno di Capaci. O anche “la disgrazia di Capaci”, come mi ha detto una volta Antonina Brusca, dama di carità di San Vincenzo e madre di Giovanni, il mafioso che quel giorno era sulla montagnetta con un radiocomando fra le mani. Capaci. Capaci. Tutti ripetiamo sempre Capaci e indichiamo fin dal primo momento un luogo che non è quello, trasportiamo la “scena del crimine” a qualche decina di metri, una piccola confusione geografica per un cartello stradale ripreso dalle televisioni di tutto il mondo, un dettaglio irrilevante e innocente. Ma cosa c’è, cosa c’è che possiamo ritenere di veramente innocente dopo un quarto di secolo in questa grande tragedia nazionale? Cosa ci aspettiamo o ci auguriamo di trovare ancora oggi di trascurabile e insignificante in quel cratere profondo quasi quattro metri?
Giovanni Falcone, alle 17.56 minuti e 48 secondi se ne sta andando per sempre nel territorio di un altro comune della provincia palermitana che è lì a un passo, quasi attaccato, Isola delle Femmine. Un paese che si allunga davanti a uno scoglio deserto che alla sua estremità ha una torre innalzata per l’avvistamento dei corsari barbareschi, una pietra sopra l’altra nel tratto di Tirreno fra Punta Raisi e Capo Gallo, all’orizzonte Ustica, in lontananza il profilo glabro di Montepellegrino, dietro e sotto Palermo sprofondata nella sua paura.
La sua seconda vita era cominciata tredici anni prima di quel 23 maggio.

Le tribù di Palermo
Sua Eccellenza Giovanni Pizzillo, primo presidente della Corte di Appello di Palermo, il magistrato più alto in grado del distretto giudiziario, una mattina spalanca la porta della stanza del consigliere istruttore Rocco Chinnici e urla: «Voi state rovinando l’economia con le verifiche della Finanza. Carica di altri processi quel Falcone, in maniera che cerchi di scoprire nulla, perché tanto i giudici istruttori da quando mondo è mondo non hanno mai scoperto nulla».
È la fine del 1979. Palermo è una città avvolta in un silenzio spettrale. La giustizia è marcia, la mafia non esiste, le cause si decidono fuori dalle aule, le assoluzioni si barattano nei “villini a mare” di Mondello e di Sferracavallo. I Principi del Foro in dibattimento fanno scena: «Signor Presidente, la prova!, mi deve portare la prova!». Avvocati di corridoio, che sono lì per guardare, per vedere chi entra e chi esce dalle cancellerie. Avvocati di controllo, che devono sempre sapere se qualcuno sbaglia a parlare durante un interrogatorio. Gli ergastoli sono destinati solo agli “scafazzati”, gli schiacciati dalla vita, gli ultimi, relitti umani che sopravvivono in una Palermo che è un recinto, popolata da tribù che si proteggono una con l’altra. In questa sacca infetta, il giudice della sesta sezione penale dell’ufficio istruzione Giovanni Falcone ha appena firmato un ordine di sequestro per alcuni assegni scambiati alla sede centrale della Cassa di Risparmio per le province siciliane. Sono già sulla sua scrivania, tutti sistemati per ordine di data davanti a piccole papere di terracotta o di legno e in mezzo a una mezza dozzina di penne stilografiche e boccette di inchiostro verde. Gli assegni sono allineati uno dietro l’altro, “girati” sempre agli stessi nomi.
Inzerillo Santo. Di Maggio Rosario. Gambino Tommaso. Inzerillo Pietro. Di Maggio Salvatore. Gambino Giuseppe. Sono tutti imparentati fra loro e tutti hanno fratelli o cugini emigrati dall’altra parte dell’Atlantico, a Cherry Hill, nello Stato del New Jersey. È una grande famiglia.
Il giudice della sesta sezione penale arriva a loro inseguendo i movimenti di un costruttore che a Palermo considerano un benefattore: dà lavoro ad almeno diecimila edili. Si chiama Rosario Spatola, ha un’impresa all’Uditore – in via Beato Angelico – e una fedina penale immacolata. Solo una contravvenzione: quando faceva il venditore ambulante, allungava il latte con l’acqua. Rosario Spatola ha appena vinto un appalto per 442 alloggi bandito dall’Istituto autonomo case popolari, il presidente dell’ente è Vito Ciancimino. L’uomo che è stato sindaco di Palermo per nove giorni e padrone di Palermo per vent’anni. Quel Rosario Spatola è sposato con una certa Filippa Inzerillo, che è la sorella di Totuccio Inzerillo, anche lui imprenditore ma pure uomo di fiducia – anzi, l’uomo di fiducia – di Stefano Bontate. Il capo mafia di Palermo. Lo chiamano “Il Principe”, in una città soffocata da antiche leggi non scritte lo ossequiano come una divinità. Bontate è l’erede più moderno di un’aristocrazia criminale che vorrebbe Palermo com’è e come è sempre stata, immobile. Studiando quegli assegni e indagando sugli intrecci familiari, il giudice entra negli affari e nei segreti di un’organizzazione. Giovanni Falcone sospetta di un traffico di stupefacenti: eroina che parte dalla Sicilia e soldi che tornano nelle banche palermitane. E poi c’è anche un grande mistero dietro gli Spatola e gli Inzerillo. È appena scomparso da New York – rapito? fuggito? – un finanziere che in quegli anni controlla almeno il 40 per cento delle azioni che passano dalla Borsa di Milano, uno che è finito sulla copertina della rivista Time con un titolo molto impegnativo: L’italiano di maggiore successo dopo Mussolini.
Il presidente del Consiglio Giulio Andreotti lo ha appena incoronato come «il salvatore della lira», ma Michele Sindona è sparito all’improvviso dopo una agitatissima telefonata fatta da una cabina di Manhattan. Il giudice Falcone scopre che si nasconde in Sicilia sotto falso nome. E che gira per Palermo con una parrucca che gli copre il cranio rasato e un passaporto intestato a Joseph Bonamico. È ospite, e forse anche un po’ prigioniero, di tutti gli amici del “benefattore” Rosario Spatola.
Sua Eccellenza Pizzillo è molto preoccupato.

Il ritorno nella sua città
Quarant’anni non li ha ancora fatti e ha deciso di tornare nella sua città. L’ha lasciata nel 1964, dopo sei mesi come uditore proprio al Palazzo di Giustizia di Palermo. Un anno di pretura dall’altra parte della Sicilia, a Lentini. E poi altri dodici anni a Trapani. Come sostituto procuratore, giudice istruttore e di sorveglianza, prima tanto penale e alla fine anche un po’ di civile. È un tribunale piccolo quello di Trapani, ma è anche un osservatorio molto speciale che gli fa incontrare per la prima volta la mafia. Ha la faccia di Mariano Licari, “uomo di rispetto” di Marsala invischiato in una misteriosa compravendita di terreni che aveva lasciato due cadaveri a terra. Il sostituto procuratore Falcone pensa di avere in mano la carta giusta per incastrare il mafioso: è un funzionario delle tasse, un testimone che accusa Licari. In dibattimento qualcuno si accorge però che i giurati popolari vengono avvicinati e intimiditi, il processo viene trasferito a Salerno. E ricomincia dall’inizio. Licari viene assolto. All’ultima udienza, il boss si avvicina al suo accusatore e gli sibila all’orecchio: «Sei un carabiniere a cavallo». È l’insulto peggiore per un mafioso, più di “cornuto e sbirro”. Il carabiniere a cavallo è l’emblema dello Stato, il primo nemico.
Trapani, provincia apparentemente sonnolenta dove tutti conoscono tutti, tutti frequentano tutti, tutti coprono tutti. Piccola borghesia di provincia e mammasantissima al riparo dalla legge, tanti sportelli bancari quanti ce ne sono in Svizzera e in Lussemburgo, logge segrete, intoccabili i fratelli Minore e ancora più intoccabili di loro quei cugini di Salemi che fanno gli esattori, Nino e Ignazio Salvo. Ricchissimi, potentissimi, mafiosissimi. Trapani, la città siciliana che qualche anno dopo il regista Damiano Damiani – e non certo per caso – sceglierà come set per la prima Piovra, la fiction che fa conoscere agli italiani la mafia degli intrighi finanziari, degli insospettabili, della politica che si struscia con le Cupole.
Giovanni Falcone e sua moglie Rita Bonnici – si erano conosciuti a una festa a Palermo nel 1962 e si erano sposati due anni dopo, quando lui aveva appena superato gli esami per magistrato – hanno amici fra i giudici e gli avvocati trapanesi. Rita è bruna, bella, con tanta voglia di vivere. È lei che lo trascina. A San Vito Lo Capo, allo stagnone di Mozia con le sue saline, al “Ciclope”, cous cous, busiate al pesto e Corvo bianco di Salaparuta. La felicità del matrimonio dura poco, i due si separano, provano ancora, si lasciano definitivamente. E il magistrato fa domanda per tornare a Palermo. È l’inverno del 1978. Falcone trova un’altra città. Più cupa, cattiva. Va ad abitare in via Notarbartolo. È una strada di vetrine illuminate dai neon, paninerie, panellerie, stuzzicherie, gelaterie, profumerie. Una Palermo luccicante molto distante dalla Kalsa dove era nato, la chiesa sconsacrata della Magione, il Foro Italico, i palazzi devastati dai bombardamenti della seconda guerra. È l’inizio di una nuova esistenza. A cosa va incontro non lo immagina.
Per qualche mese è alla sezione fallimentare, poi chiede il trasferimento all’ufficio istruzione. Lì si è appena insediato il nuovo capo, Rocco Chinnici, un omone alto e grosso che non ha simpatie per i notabili di Palermo e gira per le scuole a parlare di mafia. Lui la pronuncia con due “effe” quella parola, all’antica, come si usava nell’800. Non dice mafia ma dice maffia. Chinnici ha sostituito un magistrato che non c’è più. Cesare Terranova, assassinato il 25 settembre del 1979, il giorno prima del suo insediamento sulla poltrona di consigliere istruttore. A luglio di quell’anno, il 21, hanno ucciso il capo della squadra mobile Boris Giuliano. A marzo è caduto il segretario provinciale della Democrazia cristiana Michele Reina. A gennaio hanno sparato al giornalista Mario Francese. Palermo non è più quella di prima.
Il consigliere istruttore Rocco Chinnici assegna al nuovo giudice istruttore un fascicolo. Sul primo foglio c’è quel nome: Rosario Spatola. Comincia l’avventura di Giovanni Falcone e, per la prima volta nella sua storia, la mafia siciliana ha paura di qualcosa e di qualcuno.

Le Corti dei miracoli
L’indagine su «Rosario Spatola+42» diventerà due anni dopo l’inchiesta su «Michele Greco +160», l’inchiesta su «Michele Greco+160» nel 1985 si trasformerà nella sentenza ordinanza «Abbate Giovanni+706», ottomilaseicentosette pagine, quarantadue volumi con un incipit: «Questo è il processo all’organizzazione mafiosa denominata Cosa nostra, una pericolosissima associazione criminosa che, con la violenza e l’intimidazione, ha seminato e semina morte e terrore». Un’investigazione dietro l’altra e un’investigazione dentro l’altra per scoprire che non ci sono poche o tante “famiglie” che regnano su Palermo e sulla Sicilia, ma c’è una e una sola organizzazione che ha un vertice, un governo che si chiama “Commissione”. È la scoperta della mafia.
Per arrivare a capire cos’è e quanto potere ha, il giudice istruttore della sesta sezione penale rivoluziona un sistema d’indagine. Non segue più un singolo indiziato ma un gruppo di indiziati legati da vincoli di sangue che insieme fanno impresa, che insieme vincono appalti, che insieme esportano la “pasta” – la morfina base – nel New Jersey, che insieme corrompono pubblici funzionari e insieme taglieggiano commercianti e ordinano omicidi. Falcone suggerisce agli ufficiali di polizia giudiziaria pedinamenti e appostamenti nelle borgate, firma decreti di intercettazione telefonica, studia tabulati bancari, archivia nei suoi appunti migliaia di dati sui mafiosi e sui loro amici che stanno in Turchia o nel Sud Est asiatico. Comincia ad esplorare anche la terra di nessuno che c’è in Sicilia, i complici negli apparati statali, alla Regione, in Parlamento. Lo fa con accortezza, muovendo lentamente un passo dopo l’altro, ossessionato dai riscontri per ogni intuizione, alla maniacale ricerca di una conferma investigativa per ogni sospetto. Tutto nel più assoluto segreto.
«La prova, signor Presidente, la prova!».
Come riferimento per la sua indagine Falcone conserva in un piccolo armadio gli atti di due processi. Uno celebrato a Catanzaro contro la mafia palermitana, 114 imputati. L’altro a Bari contro la mafia di Corleone, 64 imputati. Al tempo i dibattimenti con quei personaggi del grande crimine si trasferivano lontano dalla Sicilia per “legitima suspicione”, legittimo sospetto. Troppi condizionamenti e troppe paure. Il primo processo si era chiuso alla vigilia del Natale del ’68 con una raffica di assoluzioni. Tutti liberi i Chiaracane, i Manzella, i Di Peri, Tommaso Buscetta e Stefano Bontate, i Nicoletti. E così pure il secondo, nel giugno del 1969. Tutti assolti per insufficienza di prove i Bagarella, Totò Riina e Bernardo Provenzano, Luciano Liggio. Più che Corti di Assise quelle sembravano Corti dei miracoli. Magistrati docili, processi costruiti con una manciata di indizi, rapporti di polizia arrangiati, liste di nomi seguite da altre liste che contenevano burocraticamente solo i precedenti penali di ciascun imputato. Non c’era altro.
Il giudice Falcone ha la consapevolezza che bisogna istruire altrimenti i processi di mafia. Proprio come ha cominciato a fare con le sue indagini nelle banche. Perché quei boss sennò restano sempre liberi e innocenti, con trucchi e cavilli i loro consigliori “buttano i processi in nullità” e all’Ucciardone i mafiosi passano solo in transito. Per la “villeggiatura”, dicono loro. Tutti alla settima sezione, al terzo piano, territorio proibito per gli altri detenuti. Un carcere nel carcere riservato agli uomini d’onore, celle aperte, l’infermeria a disposizione per i summit, il vitto carcerario rifiutato perché “è il mangiare del governo”. All’Ucciardone entrano anche i latitanti. Di giorno le aragoste, di notte le buttane.
Quando a Palermo arriva il giudice istruttore Giovanni Falcone per questo mondo è l’inizio della fine.
Falcone è solo ma non proprio solo. Accanto a lui, c’è un altro magistrato. Si chiama Paolo Borsellino, segue le indagini sull’omicidio del commissario Boris Giuliano e sulla misteriosissima «mafia del Parco». E anche quella sulla morte del capitano Emanuele Basile, il comandante della compagnia dei carabinieri di Monreale ammazzato la notte del Santissimo Crocifisso, il 4 di maggio del 1980. Prima, all’Epifania, hanno ucciso anche il presidente della  Regione Piersanti Mattarella. Dopo, ad agosto sempre di quell’anno, il procuratore capo della repubblica Gaetano Costa. Palermo è in guerra. E barricati nei loro fortini ci sono una dozzina di uomini che investigano sui vivi e sui morti della città. Si muovono come ombre. Guglielmo Incalza all’“investigativa” della Mobile, il tenente Diego Minnella e il capitano Tito Baldo Honorati del reparto operativo dei carabinieri, il maresciallo Angelo Crispino e il colonnello Elio Pizzuti della guardia di finanza. Poi ne arrivano altri. Ciccio Accordino. Beppe Montana. Ninni Cassarà. Poliziotti. E Angiolo Pellegrini, un ufficiale dell’“anticrimine” dell’Arma. Sono loro che danno la caccia ai mafiosi. Ma loro sono anche le prede.

Quel giudice è “un problema”
Il salone da barba è il luogo più vietato. Gente che va e viene, vetrine “all’affaccio”, rischioso. E al cinema non ci va più, bisogna liberare tre file avanti e tre dietro. Nemmeno al ristorante. Ci prova una volta. Una sera entra in una trattoria di Mondello, si siede con un amico in un angolo e i vicini cambiano tavolo. Da quando ha in mano l’indagine su Rosario Spatola il giudice Falcone è l’uomo più protetto d’Italia. Le strade della città sono attraversate da cortei blindati, garitte, elicotteri che sfiorano i tetti dei palazzi. Un pomeriggio sta tornando a casa e sente dire a un passante: «Certo, che per essere protetto in questo modo, deve avere fatto qualcosa di veramente malvagio».
C’è una Palermo che lo ammira e c’è una Palermo che lo detesta. Ci sono quelli disturbati dal rumore delle sirene e altri terrorizzati dalle sue inchieste. A tutti dà voce Patrizia Santoro, “un’onesta cittadina” che invia una lettera al Giornale di Sicilia che (molto) volentieri pubblica: «Regolarmente tutti i giorni – non c’è sabato o domenica che tenga – al mattino, nel primissimo pomeriggio e alla sera – senza limiti di orario – vengo letteralmente “assillata” da continue e assordanti sirene di auto della polizia che scortano i vari giudici. Ora, mi domando: non è che questi “egregi signori” potrebbero essere piazzati tutti insieme in villette di periferia della città, in modo tale che sia tutelata l’incolumità di noi tutti, che nel caso di un attentato siamo regolarmente coinvolti senza ragione?».
L’amministratore del condominio di via Notarbartolo dove abita, gli fa recapitare una raccomandata: «Decliniamo ogni responsabilità per i danni che potrebbero essere recati alle parti comuni dell’edificio». Falcone fa paura. Anche dentro il suo Palazzo di Giustizia. Denigrato apertamente da un paio di colleghi, come Beniamino Tessitore e Giuseppe Prinzivalli. Altri si fingono amici, come Vincenzo Geraci. È malvisto da procuratori capi, procuratori generali, presidenti di sezione di Tribunale e di Appello, mummie che escono allo scoperto solo alle inaugurazioni degli anni giudiziari e patiscono quel magistrato che sta dimostrando una notevolissima capacità investigativa e ha un sacro rispetto delle regole, mai accomodante, che si muove con una decisione fino ad allora sconosciuta. Uno da tenere alla larga. Dentro il Palazzo, Giovanni Falcone ha pochissimi amici.  In procura solo uno: Giuseppe Ayala. Si vedono anche fuori. Ayala, che è uno dei pubblici ministeri ai quali i giudici istruttori inviano gli atti sulle indagini di mafia, è il suo contatto con quel poco di vita lontano dal bunker dove è rinchiuso.
È un sepolto vivo sempre più famoso, Giovanni Falcone. In Sicilia e in Italia. E anche negli Stati Uniti d’America. Almeno una volta la settimana parla al telefono con Richard Martin, il procuratore che sta indagando sulla Pizza Connection, siciliani che esportano negli States quintali di stupefacenti e che hanno scelto come quartiere generale un paio di pizzerie di Brooklyn. Ha un rapporto fraterno con Louis Freeh, che da lì a poco viene nominato direttore dell’Fbi. È in intimità con Rudolph Giuliani, procuratore distrettuale di Manhattan che sarà poi anche sindaco di New York. Tutti e tre gli americani – che hanno messo gli occhi sui Gambino di Cherry Hill – non fanno un passo senza chiedere prima un consiglio a lui.
Ma il giudice che ci invidiano in America sta cominciando a diventare “un problema” per l’Italia. Magistrati e avvocati lo chiamano “giudice planetario” per le sue missioni in Thailandia e in Canada. «Ma dove vuole andare a parare questo Falcone?», sussurrano nei corridoi e al bar del Palazzo.
Siamo nei primi anni 80 e per Palermo è già un corpo estraneo. È un magistrato mal tollerato dalla magistratura, ha una sapienza giuridica che non piace ai tecnici del diritto, è slegato dai partiti e dalle fazioni della corporazione. È fuori posto. Falcone. In tribunale. A Palermo. A Roma. È un italiano fuori posto in Italia. Francesca la incontra a casa di amici e se ne innamora. Anche lei è magistrato, alla procura dei minori. Figlia di magistrato e sorella di magistrato, Alfredo Morvillo, che è un sostituto procuratore. Una relazione come tante. Ma cominciano a circolare pettegolezzi nel Palazzo, veicolati da qualche toga e dai soliti due o tre avvocati. Il pretesto per un intervento “moralizzatore”. È sempre Pizzillo, il primo presidente – quello che voleva «caricare di processi Falcone» purché non indagasse nelle banche – che un giorno convoca il giudice e gli comunica che scriverà al Consiglio superiore della magistratura. «Date scandalo», dice. E gli fa capire che sta partendo una proposta di trasferimento per “incompatibilità ambientale”. Falcone non fa una piega.
Ha altro a cui pensare. Agli attacchi che gli arrivano da Corrado Carnevale, l’“ammazzasentenze”, il primo presidente della sezione penale della Suprema Corte che ha già cassato quasi 500 verdetti di processi di mafia e terrorismo. È in agguato la “leggenda in ermellino”, al varco ad aspettare l’inchiesta di Falcone iniziata con il boss Rosario Spatola. Sta aspettando il maxiprocesso di Palermo per distruggerlo.
In un’Italia che si scopre supergarantista con i mafiosi, c’è un “partito” contro Falcone «che vuole arrestare tutti». Ogni giorno il giudice ingoia veleno. Il foglio della città, Il Giornale di Sicilia, l’organo ufficiale del potere palermitano, gli dedica velenosi commenti su “come si fa veramente il giudice” e sulle “comiche figure di strani magistrati che popolano il proscenio giudiziario dei nostri tempi”. E altri articoli contro una struttura giudiziaria specializzata nella lotta alla mafia, che hanno appena creato all’ufficio istruzione. Il seme l’ha gettato Rocco Chinnici. Ma il vecchio consigliere è morto anche lui: un’autobomba, il 29 luglio del 1983. Un mese prima hanno ucciso il capitano dei carabinieri Mario D’Aleo, l’ufficiale che aveva sostituito Emanuele Basile a Monreale. Un anno prima è toccata al segretario regionale del Pci Pio La Torre e al prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa. Palermo città mattatoio. Al posto di Chinnici arriva da Firenze Antonino Caponnetto. Dopo una settimana riunisce tutti nella sua stanza e annuncia che ora c’è un gruppo di magistrati che si occuperà solo di indagini di mafia: Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta, Giuseppe Di Lello. Il pool. Sono gli ultimi giorni del dicembre del 1983.

Mezza parola
È un lungo silenzio che racconta tanto, forse tutto. Un gioco di sguardi, dove uno “pesa” l’altro per scoprire fino a quale punto può lasciarsi andare. È la “mezza parola” che conta più del discorso, un impercettibile movimento delle labbra, un sopracciglio che si alza, la voce che diventa un soffio. Si intendono e si rispettano fin dalla prima guardata, nel luglio del 1984. Due siciliani seduti uno di fronte all’altro, un uomo dello Stato e un uomo della mafia. Giovanni Falcone e Tommaso Buscetta. Da quell’incontro finisce il mito dell’invincibilità dei boss, il muro dell’omertà si spezza per sempre.
Quarantacinque giorni. Tanto dura l’interrogatorio di don Masino, in una stanza soffocata dal caldo della Criminalpol di Roma. Loro due, soli. Buscetta che ogni tanto parla e ogni tanto scruta il volto del giudice, Falcone che verbalizza ogni frase senza un cancelliere, l’inchiostro verde della sua stilografica su una montagna di fogli bianchi. Tutto sul filo delle parole e dei sospiri. Perché Falcone capisce che la “parlata” mafiosa non è solo un linguaggio e non è solo un codice, è esercizio di intelligenza, esibizione permanente di potere. Tutto è messaggio. Anche le sfumature che sembrano più insignificanti, anche i gesti che prendono il posto delle voci. Don Masino fa tanti nomi, gli spiega che da una parte c’è l’aristocrazia mafiosa e dall’altra quei “terroristi” dei Corleonesi con in testa Totò Riina, ma soprattutto consegna a Giovanni Falcone la chiave per penetrare in un mondo oscuro e attraversarlo. E lo avvisa: «Non credo che lo Stato italiano abbia veramente intenzione di combattere la mafia. L’avverto, dottor Falcone, dopo questo interrogatorio lei diventerà una celebrità. Ma cercheranno di distruggerla fisicamente e professionalmente. Non se lo dimentichi: il conto che ha aperto con Cosa Nostra non si chiuderà mai». Tommaso Buscetta è la prima gola profonda della mafia siciliana che Falcone trasformerà in un collaboratore di giustizia. La sua prima opera d’arte.
Non più informatori nell’ombra al servizio di commissari di polizia o ufficiali dei carabinieri, non più soffiate con delatori interessati e a pagamento. Ma testimoni che accusano se stessi prima di accusare gli altri, che mettono la loro firma sotto un verbale di interrogatorio, che depongono in un’aula di giustizia. Una gestione istituzionale, pubblica e non più segreta. Tutti gli schemi investigativi precedenti saltano, le inchieste subiscono uno sconvolgimento. Falcone capisce che Buscetta è solo il primo. E che altri, tanti altri come lui ne arriveranno. Anche i boss lo capiscono. E si preparano al peggio. A consegnare don Masino al giudice è Gianni De Gennaro, il capo della Criminalpol di Roma. Due mesi e mezzo dopo il primo faccia a faccia fra Falcone e Buscetta, Falcone ordina al poliziotto 3600 riscontri alla “cantata” di don Masino. All’inizio del 1985 l’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo è pronto a contestare a più di settecento imputati 438 capi d’imputazione e 121 omicidi.
Cosa sa Giovanni Falcone della mafia prima dell’arrivo di Buscetta? Molto. Soprattutto grazie al poliziotto che gli è più vicino, un amico: Ninni Cassarà, il capo dell’“Investigativa” della squadra mobile di Palermo. È uno “sbirro” elegante, colto, intelligente. Ninni Cassarà ha fonti straordinarie dentro la mafia palermitana. Una è Mariella Corleo, una donna imparentata con gli esattori Salvo. Gli racconta della morte del marito Ignazio Lo Presti, un amico di Buscetta. L’altra fonte è un boss legato alla vecchia guardia. Nei rapporti Cassarà lo chiama “Prima Luce”, proprio perché illumina il buio che avvolge quella società segreta. Gli spiffera nomi, ricostruisce la guerra scatenata da Totò Riina contro Stefano Bontate, indica sicari e covi. “Prima Luce” è Salvatore Contorno, “Totuccio”, il mafioso che un anno dopo diventerà il secondo pentito di mafia.
L’incontro fra Giovanni Falcone e Ninni Cassarà è decisivo per il destino del maxi processo. Ma Cassarà non potrà mai ascoltare “Totuccio” sul banco dei testimoni del’aula bunker dell’Ucciardone. Viene ucciso con l’agente Roberto Antiochia. Trecento colpi di kalashnikov, il 6 agosto del 1985. Una settimana prima in un agguato se n’è andato anche Beppe Montana, il capo della “Catturandi”. Intorno all’inchiesta di Falcone sugli Spatola e sugli Inzerillo iniziata alla fine del 1979, ci sono solo morti. Più l’indagine si allarga e più la mafia alza il tiro. La polizia di Palermo è allo sbando. Questori timorosi, commissari distratti. C’è voglia di tornare al passato. Per fortuna, scendono da Roma funzionari della Criminalpol, che diventano il braccio operativo del giudice della sesta sezione penale. Uno è Gianni De Gennaro, l’altro è Antonio Manganelli, il terzo Alessandro Pansa. Con Falcone hanno un rapporto di fiducia assoluta. È un’altra grande svolta nell’inchiesta di Palermo. Tutti e tre gli investigatori, pur prendendo in futuro strade diverse, diventeranno uno dopo l’altro capi della polizia di Stato.

Un capolavoro di ingegneria giudiziaria
«Papa, aiutami a far funzionare questo coso!». È un computer Olivetti, uno dei primi che il ministero di Grazia e Giustizia ha spedito a Palermo. Sono accatastati in un angolo del tribunale, ancora avvolti negli imballaggi. È “Papa”, Giovanni Paparcuri, che se ne porta uno nella sua stanza alla sezione dei procedimenti “contro ignoti”, lo accende, lo studia, impara ad usarlo e insegna come si fa al giudice Falcone. È il 1985, alla vigilia della sentenza di rinvio a giudizio per i 706 imputati del maxi.
Tutto l’archivio di Falcone è “informatizzato” da Paparcuri e tutti i segreti del computer di Falcone sono custoditi da Paparcuri. Anche la password dell’Olivetti che il giudice ha sulla scrivania in mezzo alle sue papere colorate: “Avanti”. Giovanni Paparcuri sino al 1983 è l’autista del giudice, un giorno Falcone è in Thailandia per una rogatoria e “Papa” va a prendere il consigliere istruttore Chinnici a casa sua. È quel 29 luglio. Anche Giovanni rimane incastrato fra le lamiere dell’auto corazzata. Si salva per miracolo. E poi il miracolo lo fa lui con i suoi computer. Il maxiprocesso sta per iniziare. Giovanni Falcone e Francesca Morvillo decidono di sposarsi, fissano la data del matrimonio a maggio del 1986. Il giorno prima delle nozze Falcone confida a Borsellino: «Con Francesca abbiamo deciso di non avere figli, la lista degli orfani è già lunga..». Ogni via di Palermo ha una lapide, una croce, un altarino con un mazzo di fiori. Totò Riina è latitante da diciassette anni e Bernardo Provenzano da ventitré. E nessun giudice vuole fare il presidente del maxiprocesso. Qualcuno s’inventa malattie, qualcun altro problemi di famiglia. Hanno paura. Accetta solo un magistrato del civile, Alfonso Giordano. A lui affiancano un giudice che ha un grande sapere di mafia, Pietro Grasso. È quello che ha indagato per primo sulla morte del presidente Piersanti Mattarella. Un giorno Grasso viene trascinato da Falcone in una stanza. Falcone agita una mano davanti a un milione di pagine e gli sorride: «Ti presento il maxiprocesso».
Si apre il 10 febbraio del 1986 e si chiude il 16 dicembre 1987 con 19 ergastoli e 2665 anni di carcere. È la prima sconfitta della mafia da quando c’è la mafia. È il capolavoro di ingegneria giudiziaria di Giovanni Falcone. Il suo “metodo” ha vinto. Falcone confessa a Marcelle Padovani in Cose di Cosa Nostra, un libro testamento: «Professionalità significa innanzitutto adottare iniziative quando si è sicuri dei risultati ottenibili. Perseguire qualcuno per un delitto senza disporre di elementi irrefutabili a sostegno della sua colpevolezza significa fare un pessimo servizio. Il mafioso verrà rimesso in libertà, la credibilità del magistrato ne uscirà compromessa e quella dello Stato peggio ancora». In queste parole c’è molto del pensiero del giudice. L’essenza “rivoluzionaria” del suo riformismo, la sua diversità, c’è il suo genio. Con il maxiprocesso è finita per sempre l’epoca delle assoluzioni per insufficienza di prove. È il primo successo dello Stato italiano contro Cosa nostra. «La mafia è stata sconfitta per sempre», dichiarano trionfanti i ministri di Roma il giorno dopo la sentenza di primo grado. C’è euforia. L’unico che non si fa contagiare dalla sbornia è Falcone. Conosce troppo bene la mafia.

Lentamente, verso la morte
Talpe. Corvi. Sciacalli. Cosa vuole ancora questo Falcone? La sua gloria l’ha avuta, rientri nei ranghi, basta con questi processi con centinaia di imputati, basta con i “teoremi”. Chi si crede di essere, lo zar dell’Antimafia? Il primo segnale arriva quando se ne va Caponnetto e il Consiglio superiore della Magistratura, nella primavera del 1988, mette al suo posto Antonino Meli. Chi più di Falcone ha le carte in regola per occupare quella poltrona, per competenza, per la straordinaria prova che ha dato di sé, per i suoi contatti internazionali, per la sua dedizione assoluta alla causa, per il suo senso dello Stato? Ma Falcone va fermato. E lo fermano. C’è già stata l’“aggiustatina” in appello del maxi, dove una Corte nega l’unitarietà dell’organizzazione criminale. Con la nuova nomina del consigliere istruttore Meli, l’inchiesta di Falcone si riduce a uno “spezzatino antimafia”, frantumata in una ventina di indagini sconnesse una dall’altra. In due settimane Meli seppellisce il pool. I primi nemici del giudice sono sempre i giudici.
Nel breve volgere di qualche anno Giovanni Falcone accumula una disfatta dopo l’altra. Bocciato come consigliere istruttore. Bocciato come Alto commissario antimafia. Bocciato come candidato al Csm. Bocciato come procuratore nazionale. Sulle colonne di questo giornale Mario Pirani lo descrive come l’Aureliano Buendia di Cent’anni di solitudine, che ha combattuto trentadue battaglie e le ha perse tutte. La sua morte intanto è sempre più vicina. L’attentato fallito all’Addaura e le “menti raffinatissime” che l’hanno organizzato, le lettere di calunnia sul ritorno dei pentiti in Sicilia che lui avrebbe pilotato, il nuovo procuratore Piero Giammanco che lo umilia ogni giorno facendogli fare anticamera e fermando le sue indagini. Falcone decide di lasciare Palermo. E accetta un incarico al ministero di Grazia e Giustizia, come direttore generale degli Affari Penali. Per molti è un tradimento. Anche gli amici e pezzi dell’Antimafia che gli sono sempre stati vicini lo accusano: «Ti sei venduto al potere e hai tenuto chiuse nei cassetti le indagini sui delitti politici». Un’altra sofferenza per il giudice. Non può stare in Sicilia, non può stare a Roma. Ha sempre qualcuno contro. Per quello che fa o per quello che non fa.
È il settimo governo Andreotti, ministro degli Interni il democristiano Vincenzo Scotti, ministro della Giustizia il socialista Claudio Martelli. Il 13 marzo 1991 Falcone prende servizio al ministero di via Arenula. Sembra un altro uomo, apparentemente più sollevato, meno infelice. Presenta un “piano”. Confische dei beni, una legge sui pentiti, il carcere duro per i boss. È il suo “pacchetto antimafia”. I mafiosi capiscono quel che c’è da capire: a Roma sta diventando più pericoloso che a Palermo. L’Italia è un paese che riserva sempre sorprese. Giulio Andreotti, l’uomo politico che più di tutti gli altri ha avuto i voti dei “galantuomini” per un trentennio, è il presidente di quel governo – decima legislatura – che sarà ricordato come l’esecutivo che approva le leggi antimafia più severe della nostra Repubblica. Nel periodo romano – un anno e tre mesi – Falcone gioca il tutto per tutto.
Il nuovo direttore degli Affari penali ordina un’indagine sulla Cassazione e dispone, per i processi di mafia, una “rotazione” delle sezioni penali. Il maxi non passerà più dalle grinfie di Carnevale, la “leggenda in ermellino” che è appostato per regalargli l’ultima mortificazione. Falcone non lo sa ma è già un uomo morto. Il 30 gennaio del 1992 la Cassazione conferma gli ergastoli e, soprattutto, l’impianto dell’inchiesta del maxi processo. Il 12 marzo a Mondello uccidono Salvo Lima, l’uomo di Andreotti in Sicilia. Non ha mantenuto la promessa: far saltare il banco dell’inchiesta cominciata dodici anni prima con quell’imprenditore dell’Uditore. La sua uccisione ferma il percorso di Andreotti verso il Quirinale.
Poi, lentamente, Falcone viene attirato nella tonnara. I killer di mafia sono già a Roma, pronti a tendergli l’agguato con “armi corte”. A Roma è un bersaglio facile. Ma Totò Riina ordina a loro di «scendere», di tornare in Sicilia. Perché Falcone deve morire in un altro modo. In un’operazione militare, di guerra.
Il corteo di auto blindate sull’autostrada, l’esplosione che solleva la terra. Muore il giudice, muore sua moglie Francesca, muoiono i ragazzi della sua scorta, la “Quarto Savona 15”. Antonio Montinaro, Vito Schifani, Rocco Di Cillo. Quarantotto ore dopo saltano tutti i veti incrociati per l’elezione del Presidente della Repubblica e Oscar Luigi Scalfaro è il nuovo Capo dello Stato. La strage ha un effetto “stabilizzante” per la politica italiana. E gli avvertimenti di quella piccola agenzia giornalistica – “Repubblica”, vicina a una fazione della corrente andreottiana che fa a capo al deputato Vittorio Sbardella, padrone di tessere della Democrazia cristiana romana, uno soprannominato “lo Squalo” – avevano un loro fondamento. Dopo cinquantasette giorni muore anche Paolo Borsellino. Dopo un anno le bombe di Firenze, di Roma e di Milano. Nel 1993 vogliono buttare giù con la dinamite anche la Torre di Pisa, vogliono uccidere 100 carabinieri allo stadio Olimpico, vogliono disseminare le spiagge della riviera romagnola con siringhe infettate dal virus Hiv.
Totò Riina? Solo Totò Riina?

Oggi, venticinque anni dopo
La mafia dei Corleonesi non c’è più, spazzata via da una repressione poliziesca e giudiziaria senza precedenti. Totò Riina è ormai un clown in cattività, un personaggio che recita a soggetto e che fa minacce al vento alle quali tutti fanno finta di credere. Non ha più esercito, non ha più un popolo, con le stragi del 1992 a Cosa nostra ha causato più danni di Buscetta. Dopo le inchieste della prima ora, alcune rigorose e altre taroccate, dopo i depistaggi e le deviazioni e i falsi pentiti, è stata raggiunta una verità giudiziaria che non è poca. La magistratura ha fatto la sua parte, tutti gli uomini della Cupola sono all’ergastolo per la strage e per le stragi. Non era mai accaduto prima. La mafia siciliana sta pagando caro il conto della sua guerra allo Stato. La verità giudiziaria però non ci consegna i “mandanti altri” o i “concorrenti esterni”, quelli che avevano – insieme a Cosa nostra – l’interesse di eliminare Falcone. È da un quarto di secolo che quattro procure italiane li cercano e non li trovano. Il cratere sull’autostrada è troppo grande per entrare in una piccola aula di giustizia. Per coprire questa mancanza, per avere una narrazione attendibile e accettabile di quegli avvenimenti, è il momento che altri contribuiscano alla ricerca di una verità storica che ancora non c’è. Con Buscetta e tutti gli altri è crollato il muro di omertà della mafia. Ma il muro di omertà di Stato è rimasto inviolato. Nessuno parla. Nessuno ricorda. Nessuno si pente mai là dentro.
Cosa è accaduto nell’Italia del 1992, quando con l’uccisione di Falcone – e con Tangentopoli – si è dissolta la Prima repubblica? I Corleonesi. E chi, con loro? A Palermo e in Sicilia dopo quegli attentati non è più scoppiato nemmeno un mortaretto. La mafia è tornata quella di prima, quella di sempre. “Manza”, tranquilla. Oggi comanda senza armi. Come ai vecchi tempi. Istituzionale, pettinata, politicamente corretta. Pronta a celebrare anche gli “eroi” di cui si è liberata. Su Giovanni Falcone è stato detto tanto e anche troppo in questi anni di commemorazioni e di parate in alta uniforme. La sua figura esaltata, ma anche usata, debilitata dalla retorica, snervata. La riflessione che ci piace ricordare di più su questa spasmodica lotta per impossessarsi della sua memoria, è quella di Giuseppe D’Avanzo, un giornalista molto stimato dal giudice. Peppe ha scritto dell’«umiliante sottrazione di cadavere» compiuta da coloro i quali hanno voluto «impadronirsi delle sue parole e delle sue azioni», allo scopo di servirsene «agitandolo come una mazza contro gli antagonisti del momento».
Sulla mia scrivania ho una sua foto di quando non aveva ancora quarantacinque anni, un ritratto del 1982 o forse del 1983. Stava ancora dietro agli Spatola e agli Inzerillo. E in un cassetto, da qualche parte, ho conservato la stampata di un grafico dell’Istituto nazionale di Geofisica e di Vulcanologia sui dati trasmessi il pomeriggio del 23 maggio 1992 dalla “stazione” di Monte Cammarata. Gli strumenti avevano registrato «un piccolo evento sismico con epicentro fra i comuni di Isola delle Femmine e Capaci». Sono tornato lì, sul cratere, una ventina di giorni fa. Dove c’era l’asfalto spaccato e gli ulivi abbattuti dall’esplosione, oggi c’è un quartiere residenziale. Una trentina di villette, a due o tre piani, separate da strade che confinano con il giardino della memoria dedicato ai tre poliziotti della “Quarto Savona 15”. È un piccolo villaggio costruito sopra e ai margini della devastazione, una speculazione edilizia entrata pochi anni dopo la strage nella relazione prefettizia che – nel 2012 – ha portato allo scioglimento per mafia del comune di Isola delle Femmine. Da giù, si vede sull’altura il casotto dell’acquedotto dove erano appostati con il radiocomando Brusca e gli altri. Giù è Isola delle Femmine, su è Capaci. Nell’intrico di viuzze che portano da una villa all’altra, operai dell’azienda del gas hanno posizionato una centrale per la distribuzione del metano. È un parallelepipedo di acciaio con una grande scritta, molto sinistra: «Area in cui può formarsi un’atmosfera esplosiva».

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