Fonte: La 27essima Ora
di Marta Serafini
Immaginate di essere una cardiologa e di dover chiedere, per poter partecipare a una conferenza all’estero, il permesso a vostro figlio mentre lui se ne sta stravaccato sul divano a giocare alla PlayStation. E che lui vi risponda, tra una partita e l’altra, «ora non ho tempo di occuparmene» impedendovi così di fare il vostro lavoro e di poter esercitare un vostro diritto.
Succede nel 2016 in Arabia Saudita, come racconta Sura, 62 anni, una delle 61 donne, intervistate da Human Rights Watch tra il settembre 2015 e il giugno 2016. Divieto di espatrio senza permesso, divieto di guida, divieto di accesso alle cure mediche senza il benestare del marito o del padre, o del fratello o ancora del figlio. Anche per uscire di prigione le donne devono avere il permesso di un uomo a loro vicino. La ong statunitense ha pubblicato un lungo report in cui illustra nel dettaglio la condizione di segregazione in cui versano le donne saudite e stila alcune raccomandazioni affinché il paese di Re Salman rispetti le convenzioni contro le discriminazioni di genere che l’Arabia Saudita ha sottoscritto e firmato.
Controllate dalla nascita alla morte. «Viviamo chiuse dentro scatole da cui solo i nostri padri o i nostri mariti possono farci uscire» , ha spiegato Zahra , 25 anni. La schiavitù non riguarda solo le donne più povere. Ma investe tutta la società saudita, anche se prevale nei ceti meno ricchi. La chiave di volta di questo sistema sono i guardiani, i wali al-amr. Il controllo su una donna si tramanda dal padre al marito e in caso di morte di questo o di divorzio, la donna torna sotto la «tutela» di un mahram, il parente più anziano. Alla base di tutto la sharia, che in Arabia Saudita è legge. Sulla discriminazione di genere sono state emanate centinaia di fatwa. Una su tutte quella che impedisce a una donna «di uscire di casa senza il permesso del marito» . Il legame tra Stato, religione e nazionalismo religioso e patriarcato secondo As Madawi Al Rasheed, studioso saudita, è l’elemento alla base della segregazione femminile.
Altro diritto negato come in nessun altro paese al mondo, è la libertà di movimento. Le donne saudite non solo non possono recarsi all’estero senza il permesso del loro guardiano anche per motivi di studio o di lavoro (Human Rights Watch ha pubblicato anche i moduli che le donne devono far compilare ai mariti o ai padri per uscire dal Paese).
Ma secondo quanto stabilito da una fatwa non possono guidare. Chi viola questa disposizione rischia il carcere. E la questione ha a che fare anche con la parità di genere in ambito lavorativo. Una ricerca del 2015 ha dimostrato come il 27 per cento delle assenze sul lavoro delle donne sia dovuto a questo problema. Le donne fin qui hanno aggirato l’ostacolo usando Uber (prendere un taxi o un auto guidata da un conducente uomo è loro concesso) che non a caso ha vissuto un vero proprio boom nel paese e ha ricevuto 3.5 miliardi dal fondo di investimenti saudita.
Il problema però va risolto a livello istituzionale, secondo quanto riporta la ong. «L’Arabia Saudita ha sostanzialmente avviato alcune riforme per limitare questo sistema ma non sono sufficienti», ha sottolineato Kristine Beckerle, ricercatrice di Hrw. Nel 2013 re Abdullah ha permesso a 30 donne di entrare nel Consiglio della Shura (l’equivalente del Parlamento saudita), nel 2015 le donne sono state elette nei consigli comunali, e nel 2016 è stata approvata una legge per combattere la violenza domestica. Ma si tratta di provvedimenti limitati: a molte donne viene ancora impedito di registrarsi per votare, nei consigli comunali viene loro imposto di sedere in aule separate e i datori di lavoro che assumono le donne senza verificare se queste siano autorizzate o meno dal marito vengono penalizzati. Inoltre la legge anti violenza non parla espressamente di stupro nel caso che uomo e donna siano sposati e viene privilegiata la riconciliazione familiare a scapito delle denunce.
Come dire insomma che la strada per il rispetto dei diritti umani è davvero ancora tutta in salita.