Fonte: Corriere della Sera
di Massimo Gaggi
Le scelte del supermanager in chiave consolidamento. La pista Volkswagen
Ha risanato Fiat e Chrysler e ha razionalizzato le produzioni investendo solo in quelle che possono avere un futuro, ma Sergio Marchionne non è riuscito a vendere Fca o a fonderla con un altro gigante mondiale in un mercato inevitabilmente sempre più concentrato. Quale sarà, ora, il futuro industriale del gruppo? Continuerà di certo la ricerca di un compratore o di un partner: una ricerca che, a questo punto, procederà in modo più incalzante e, probabilmente, incontrerà meno ostacoli. Marchionne aveva indicato la rotta esponendosi in modo molto esplicito.
Aveva spiegato con franchezza che né Fca né altri gruppi, benché risanati, possono essere sicuri della loro tenuta di lungo periodo se non si integrano in entità più vaste e robuste. Ma la sua offerta a Gm era stata respinta dal gruppo di Detroit, le ipotesi cinesi si sono rivelate assai fragili mentre il partner più accreditato, Volkswagen, sta riemergendo solo ora da due anni di incubi: quelli del dieselgate costati al gruppo quasi 46 miliardi di euro.
È brutto dirlo, ma la scomparsa di Marchionne potrebbe addirittura facilitare questo negoziato. Il supermanager non solo ha indicato la strada, ma anche preparato Fca al matrimonio azzerando i debiti e concentrando il portafoglio prodotti sui settori più appetibili per i possibili partner: dal marchio Suv per eccellenza, la Jeep, a quelli sportivi di Alfa Romeo e Maserati, mentre Fiat ha scelto di concentrarsi sulle piccole premium 500 e Panda e sui furgoni come Daily e Ducato, molto redditizi, mentre le berline medie rimangono solo nei mercati emergenti dove vengono prodotte, soprattutto Brasile e Turchia.
C’è voluto il coraggio di Marchionne per decidere di non investire altri miliardi sulla nuova Punto. Oggi il gruppo è solido e può essere appetibile anche grazie a queste scelte coraggiose (e criticate da molti). Annunciando il suo ritiro da Fca nel 2019, il supermanager aveva di fatto trasferito la responsabilità del negoziato al suo successore. Ma erano in molti a pensare che Sergio avrebbe comunque detto la sua condizionando le scelte del futuro gruppo. Preoccupazioni che oggi non ci sono più: chi pensa che entrare in Fca sia un buon affare sa che avrà le mani più libere.
Potrebbe trattarsi della nuova gestione Volkswagen che, uscita dalla tempesta, magari è interessata ad arricchire il suo portafoglio con Jeep e i marchi sportivi che oggi non ha. Un gruppo che negli Usa non ha mai davvero sfondato, salvo che con Audi. Vw avrebbe anche l’uomo giusto per facilitare l’integrazione: quel Luca De Meo passato nel 2009 da Fiat a Volkswagen e che ora è capo della Seat, la casa spagnola del gruppo di Wolfsburg.
O potrebbe toccare a Hyundai: i prodotti Fca sono complementari ai suoi ma il gruppo asiatico non dispone di grosse risorse finanziarie. Improbabile, invece, una soluzione americana: il disinteresse di Gm va oltre le ruggini con Marchionne. Un partner cinese avrebbe senso, ma è difficile trovarne uno sufficientemente solido e credibile. E l’affare rischierebbe comunque di infrangersi sui veti di Trump che non ha voglia di aprire le porte a Pechino.
Ci vorrà, comunque, tempo. Nel frattempo Fca diventa un gruppo sempre meno italiano. Le nomine dei giorni scorsi al vertice di Fiat-Chrysler, Ferrari e Cnh (e le conseguenti dimissioni di Altavilla) confermano trend già consolidati: da tempo il direttore finanziario del gruppo è un inglese, il capo dell’ingegneria un tedesco e il capo del manufacturing un brasiliano. Ma questa internazionalizzazione del gruppo non è di certo negativa, mentre ci sono importanti poli produttivi e ingegneristici che rimangono ben radicati in Italia: Alfa Romeo, Maserati, ingegneria e piattaforme delle piccole vetture, la direzione europea e il polo di eccellenza tecnologica che sta crescendo nel Modenese.